Due giorni del clero a Betania (5-6 settembre 2007)

Due giorni del clero a Betania (5-6 settembre 2007)

DUE GIORNI DEL CLERO – INTRODUZIONE DEL VESCOVO
(5-6 settembre 2007)

Con la preghiera, momento qualificante del nostro stare insieme, abbiamo invocato lo Spirito Santo perché ci doni la forza di essere operatori di unità e di pace. Mi piace questa preghiera che abbiamo recitata perché coincide con la prima mia annotazione che voglio fare e che è la gioia di essere insieme con voi come presbiterio, forse un po’ attenuata dal fatto che in questi tre mesi non ho ancora potuto conoscervi personalmente. Sarebbe stato mio desiderio farlo ma ho dovuto spendere un po’ di tempo durante l’estate per assolvere impegni presi precedentemente la nomina, e ho dovuto stare rinchiuso a scrivere e a preparare dei lavori promessi e che mi si chiedevano. Ho già avuto modo di incontrare quasi tutti, almeno in un saluto sfuggevole, altri li ho conosciuti meglio nel campo di battaglia, nelle parrocchie, che dall’inizio ho cercato di visitare secondo il calendario fissato. E ora sono pieno di gioia nel passare queste ore con voi in un clima di fraternità sacerdotale e di comunione reciproca. Come avete letto nella lettera che vi avevo inviato per indire queste due giornate, il programma è il seguente: in questa prima mattinata terrò una relazione, dopo breve intervallo vi dividerete in gruppi di zona secondo le indicazioni tecniche che vi saranno e alla fine ci sarà il pranzo.

Domani riprenderemo con la preghiera e i capigruppo che sono i capi delle zone faranno una relazione sintetica di ciò che è emerso dal vostro confronto, poi alcuni interventi integrativi e delle conclusioni, ovviamente provvisorie, perché dovrò poi consultare gli altri membri del popolo di Dio.

Lo scopo è quello di una verifica a dieci anni dalla conclusione del Sinodo e riprendere le prospettive emerse dal Convegno di Verona; abbiamo la continuità con il passato e un aggiornamento e una attualizzazione delle prospettive pastorali. Il clima non deve essere quello di un esame del passato né del presente, ma quello di una riflessione che ci aiuti a renderci conto della situazione, delle attese, delle prospettive e delle realizzazioni di ciò che ancora rimane da fare; il tutto in un clima di aiuto reciproco. Questa mia prima relazione deve essere letta nella prospettiva di una sollecitazione e anche di una sintesi sia di quanto il Sinodo ha prospettato sia di quanto il Convegno di Verona ci ha recentemente proposto con la Nota pastorale che la Conferenza Episcopale Italiana ha emanata.

Ho letto nel Liber Pastoralis, che nella sua prima visita Mons. Charrier mi ha messo nelle mani e che ho subito letto ed esaminato poiché lo ritengo una ricca miniera di riflessioni e di proposte, che lo scopo prioritario con cui Mons. Charrier  aveva indetto il Sinodo era quello di “offrire un tempo di riflessione e di riprogrammazione che indicasse il cammino pastorale da percorrere a partire dalla conoscenza della reale situazione sociale ed ecclesiale”.  Questa decisione, Mons. Charrier, l’aveva maturata dopo i suoi primi anni ad Alessandria, dopo che aveva presentato dei piani di programmazione dell’intera pastorale diocesana; ma dopo qualche anno avvertì la necessità da fare il punto sul cammino percorso “cercando di abbandonare l’abitudine a fare i programmi e a non chiedersi mai come fossero realizzati”. Facendo tesoro di questa intuizione del mio predecessore, all’inizio del mio ministero episcopale, a dieci anni dalla conclusione del Sinodo, intendo con voi verificare il camino messo in moto dal Sinodo e raccogliere le indicazioni del Convegno di Verona per dare impulso e aggiornare l’azione pastorale di questa nostra Chiesa locale. Inizio con voi, cari sacerdoti, religiosi e diaconi, che siete i miei primi collaboratori, ma poi continuerò, come già vi ho detto, con le altre rappresentanze dell’intero del popolo di Dio.

Lo scopo è duplice:  conoscere meglio le persone e le situazioni; promuovere il Regno di Dio con la ricchezza di tutti i doni che il Signore elargisce alla nostra Diocesi in una comunione e collaborazione che renda visibile il nostro essere Chiesa. L’accostamento tra Sinodo diocesano e Convegno di Verona non è dovuto solo al fattore cronologico, ma provvidenziale per la convergenza di molti punti comuni, anche se non mancano delle sottolineature e delle sfumature diverse dovute all’inevitabile mutamento della situazione. In questa mia relazione introduttiva vorrei sottolineare i punti salienti dell’una e dell’altra assise ecclesiale per un confronto che permetta la verifica delle decisioni sinodali e un aggiornamento della pastorale alla luce del Convegno di Verona.

Il Sinodo 

Dalla lettura del Liber Pastoralis (LP), a chi come me non ha avuto la fortuna di parteciparvi, può derivare un’idea solo parziale dell’importante evento ecclesiale che ha tenuto in forte impegno per alcuni anni la Chiesa alessandrina. E questo è un mio limite, tuttavia questo limite può essere compensato da un vantaggio: l’osservatore esterno può leggere le cose con un maggiore distacco e analizzare la situazione alla luce più oggettiva dei risultati conseguiti e non solo delle attese e dei travagli che ci sono stati. Consapevole dei limiti della mia posizione faccio questa relazione non per dare un giudizio ma per sollecitare la vostra riflessione richiamando i punti che, secondo quanto ho letto, sono salienti; nel questionario che vi sarà dato tutto questo sarà trasformato in domande di riflessione. Ma anche il questionario a sua volta non è vincolante e restrittivo della libertà che avete di spaziare su tutta la vostra esperienza.

Anzitutto parto dalla premessa circa l’analisi dell’ambiente religioso alessandrino (LP, nn. 21-29): questa analisi era contrassegnata da una valutazione piuttosto negativa; si dice “pochi segnali di cristianesimo” anche se sono presenti “le radici religiose che si manifestano in momenti particolari dell’anno e della vita”; venivano citati il Natale, la Madonna della Salve, i sacramenti della iniziazione cristiana, battesimo, cresima, matrimoni, i rosari, le sepolture. Vi si sottolineava che “per lungo tempo, la Chiesa di Alessandria si è preoccupata di salvaguardare una religiosità devozionale e rituale, senza sentire il dovere di farsi carico dei problemi della società nel suo insieme” (n. 22). Si riconosceva per altro “il costante sforzo per migliorare la catechesi infantile”, ma si denunciava la “relativa trascuratezza nei confronti della catechesi degli adulti” con la conseguente “presenza di molti cattolici anagrafici, dalle idee molto confuse e diverse sui fondamenti della fede e sull’impegno che ne deriva” (n. 23). Già allora si constatava “l’insensibilità e l’indifferenza di molti genitori per la formazione religiosa dei figli, quasi del tutto demandata al catechismo e alla parrocchia, senza un coinvolgimento della famiglia” (n. 23). Si sottolineava anche come conseguenza il formarsi di una cultura della “separazione e dell’emarginazione” rispetto alle diversità anche non ecclesiali che ha impedito un vero dialogo con la società. Ne scaturiva da questa analisi un po’ negativa la presa di coscienza della necessità per la Chiesa alessandrina di una “conversione”, nella direzione di una maggiore fedeltà alla missione di predicare al Vangelo con un “ritorno all’essenziale, cioè all’accurata conoscenza di Cristo Signore e del suo messaggio, per favorire l’incontro personale e vitale con Lui ed esserne testimoni in ogni luogo e in ogni circostanza della vita” (n. 25). Si invocava quindi la necessità di “ripensare globalmente l’impegno pastorale in senso missionario della nostra Chiesa” (n. 26) tenendo presente il “metodo di Pietro”: proclamazione pubblica e testimonianza personale di Cristo risorto, mistero centrale della nostra fede ed evento di salvezza che riempie di gioia e che occorre proclamare e testimoniare attraverso la vita di risorti con Cristo. In queste parole vengono anticipate le linee del convegno di Verona.

L’analisi si concludeva con due forti e precise indicazioni di fondo: “Di fronte alle urgenze e alle sfide dell’ora presente la nostra Chiesa locale è chiamata ad offrire non ‘argento e oro’, cioè solo strutture, attività, ma il solo e vero tesoro che possiede: Cristo Signore” (n. 27). Da qui l’affermazione del primato della evangelizzazione: “accogliere la missione di annunciare il Vangelo agli e tra gli uomini (annuncio)”; celebrare il mistero nella vita degli uomini (celebrazione); assumere atteggiamenti evangelici nella vita pubblica e sociale (testimonianza). La seconda e forte indicazione era la necessità di una “rinnovata spiritualità” che orienti anche l’uomo del nostro tempo a “interpretare la vicenda terrena alla luce della verità eterna di Dio” (n. 28): prospettiva escatologica.

Il Sinodo poi entrava nei tre campi della evangelizzazione, teologicamente fondati, cioè l’annuncio, la celebrazione e la testimonianza. Non faccio un riassunto delle poderose pagine riportate ma voglio solo mettere in luce i seguenti punti che a mio giudizio possono essere salienti.

Per quanto riguarda l’annuncio: per rendere efficace l’affermazione della centralità e del primato della Parola di Dio e per passare dalla sola sacramentalizzazione alla evangelizzazione, si diceva: “In tutte le comunità cristiane si programmino e si realizzino incontri costanti e frequenti sulla parola di Dio” (n. 32) affidati alla responsabile iniziativa dei sacerdoti; ma si indicava anche la necessità della formazione dei sacerdoti stessi attraverso la formazione permanente, come pure per i laici. Qui si prospettava, nelle indicazioni operative in grassetto, per il presbiterio alcuni incontri mensili e comunitari sulla Parola di Dio, come pure per i religiosi e le religiose; per i laici si chiedeva all’Istituto Superiore di Scienze religiose la disponibilità di insegnamento e di formazione e in alternativa una “Scuola permanente di Teologia”. E venivano chiamati promuovere la maturità della fede tutte le forze associative della Chiesa e anche i mezzi di comunicazione sociale: giornale e radio.

Per quanto riguarda la celebrazione insieme alla opportuna raccomandazione per una degna celebrazione dei misteri della nostra salvezza con la richiesta di una migliore formazione liturgica dei ministri e dei collaboratori, l’attenzione del Sinodo si è concentrata sulla iniziazione cristiana: battesimo, cresima, eucaristia. È il punto centrale e più importante: si avvertiva la necessità di un rinnovamento della prassi tradizionale allo scopo di una migliore preparazione dei bambini ai sacramenti che deve coinvolgere le loro famiglie e l’intera comunità parrocchiale. E si stabiliva che: “È ammessa ad experimentum, in casi determinati e sotto la diretta responsabilità dell’Ordinario diocesano, la possibilità di celebrare i sacramenti dell’iniziazione cristiana nell’ordine della tradizione originaria (Battesimo, Confermazione, Eucaristia) anche per coloro che sono stati battezzati da piccoli” (n. 73 §3). A questi fine si raccomandavano incontri di preparazione per genitori e padrini e sperimentare “un itinerario catecumenale di preparazione per non finalizzare la catechesi alla esclusiva celebrazione del sacramento” (§5).

Da quanto ho saputo, su questo punto, c’è stato molto impegno, ma anche una certa diversificazione sul territorio e di cui voglio avere un preciso riscontro in questa occasione; ho inserito, nel questionario, una domanda su questo per avere una mappa della situazione, non per giudicare ma per sapere dove siamo, come siamo e dove andiamo. Mi pare opportuno segnalare il richiamo a rivedere la quantità delle messe per favorirne la migliore qualità non solo come celebrazione liturgica e comunitaria, ma anche nella presenza del sacerdote che celebra: se uno infatti deve sempre correre per celebrare la messa non è nella condizione migliore per poter celebrare bene. Rivolgendomi a voi sacerdoti vorrei salvaguardare la vostra salute fisica, ma anche quella spirituale per non esasperare e affannare l’impegno della celebrazione. Degno di nota è ciò che è detto a proposito delle devozioni e tradizioni popolari: è necessario un sano discernimento e aggiornamento congiuntamente con una corretta animazione delle processioni e delle feste patronali. Sono reduce da queste esperienze estive e ho potuto constatare una presenza popolare della nostra Chiesa immersa nel territorio con le sue tradizioni; ho una valutazione positiva che non significa dire che le cose vanno bene così: c’è da rinnovare, c’è da animare, c’è da evangelizzare ma si parte anche dal fatto che abbiamo delle occasioni che ci vengono dal passato e che non vanno semplicemente disattese.

Il terzo campo è quello della testimonianza: il Sinodo ricordava giustamente la bella prova di solidarietà cristiana data dalle nostre comunità cristiane in occasione dell’alluvione in continuità con la tradizione cristiana che è sempre stata solidale con le emergenze che a volte appaiono come straordinarie ma che, invece, sono ordinarie; e indicava quattro aree di emergenza su cui poi nel questionario vi chiederò dei riscontri: la famiglia, i giovani, il lavoro e la società con la sua vita politica. Ieri sera sono stato accolto in Comune e questo mi pare un segno tradizionale di dialogo proficuo e corretto tra istituzioni ecclesiali e civili. Per la famiglia veniva ribadita la necessità di una formazione di tipo catecumenale per i giovani che scelgono di sposarsi in Chiesa oltre al corso immediato di preparazione per i fidanzati così da collegarsi con la preparazione dei futuri figli al battesimo; evidente che una buona preparazione al matrimonio con un certo cammino dei futuri coniugi e dei futuri genitori permette più facilmente l’aggancio ai genitori dei bambini che sono da battezzare e iniziare alla vita cristiana. Si invocava un atteggiamento di misericordia verso le tante situazioni familiari irregolari che non estromettono dalla Chiesa. D’altra parte tolleranza non vuol dire accondiscendenza, ma neppure possiamo avere un atteggiamento diverso da quello del buon Pastore. Per gli anziani e gli ammalati è pure raccomandata una cura speciale affidata alla Chiesa, ai sacerdoti ma anche ai diaconi. Circa i giovani si invita a vederli più come una risorsa che un problema, anche se non si nascondono i problemi collegati ad una mancanza di presenza educativa della famiglia e della scuola; forse l’unica è stata la Chiesa ancora attenta a tutto questo. Non voglio negare quello che fa la scuola, ma sappiamo che anch’essa è in crisi. Venivano individuati tre aree di intervento a favore dei giovani: la formazione dei giovani che già frequentano e sono quindi già vicini a noi; il coinvolgimento degli altri che sono in periferia, non proprio lontani; e poi i veri lontani, quelli che sono contrari anche alla Chiesa. Per raggiungere tali obiettivi si sottolineava l’importanza degli oratori e dei centri giovanili come luoghi di accoglienza, di evangelizzazione, di scuola di vita e di gioia.  Si sollecitava la formazione e l’animazione di gruppi per favorire la conoscenza e l’attenzione al mondo giovanile da parte degli stessi giovani. E qui si citava la Scuola della parola che mi pare abbia avuto un buon successo.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro deve essere considerato un valore da parte della Chiesa a cui deve dare il suo impegno: sensibilizzazione e formazione di gruppi di lavoratori animati dalla Parola di Dio, maggior coordinamento della pastorale del lavoro sono i punti indicati dal Sinodo. Per quanto concerne la politica, il Sinodo lamentava in Alessandria “una pericolosa separazione tra vita di fede e vita sociale, tra iniziative comunitarie anche con forte valenza sociale e momenti di elaborazione e di decisione politica” (n. 130) con il rischio della “de-responsabilizzazione” da parte dei cristiani in campo politico. Quindi si sollecitava un maggiore impegno anche attraverso l’istituzione di una “Scuola sociale” e di un “Forum dei cristiani impegnati in politica” come luogo di confronto e dialogo per coloro che sono impegnati nell’amministrazione della “città degli uomini”, rimanendo però fermo il principio che compito della Chiesa (e questo l’ho ribadito sia al mio ingresso come ieri sera al Consiglio comunale) non è quello di fare politica ma animare la politica con la Parola di Dio senza “indulgere a schieramenti di parte che compromettano la Chiesa in quanto tale” (n. 132). Questo è importante sia per noi sacerdoti che non siamo chiamati a fare politica di parte sia anche per i laici che invece sono chiamati a fare politica di parte ma non in nome della Chiesa come istituzione, ma secondo la loro responsabilità singola. Non sono sfumature ma grossi principi che teoricamente tutti ammettiamo; occorre però verificare il tutto anche nella prassi, nella comunicazione con gli altri sapendo che siamo persone pubbliche e che si fa in fretta a metterci etichette. Già ce le mettono anche quando non sbagliamo, figuriamo se noi stessi diamo adito a queste etichettature di parte; e anche per i nostri laici c’è sempre il tentativo, essendo nel mondo cattolico, di trascinarci dalla loro parte. Ci vuole molta attenzione per promuovere questo impegno per non lasciarlo ai soli non cattolici restringendo così l’impegno politico dei cattolici al solo volontariato o alla supplenza.

Una speciale sezione del Sinodo era riservato alle strutture a servizio della evangelizzazione con l’intento “di renderle più semplici e maggiormente efficaci” (n 138). Tra le strutture diocesane quella più innovata pare sia stata la Curia, divisa in due settori: “Curia amministrativa” e “Curia pastorale”. Per la Curia pastorale venivano eretti a sua volta tre Uffici con i rispettivi Servizi: Ufficio per l’Annuncio, Ufficio per la Liturgia, Ufficio per la Testimonianza in coerenza logica con la divisione precedente, “intesi come un servizio alla pastorale parrocchiale, zonale e diocesana” (n. 145b), con compiti “non primariamente gestionali, ma di studio, di coordinamento e promozionale” (n. 145b). Per ogni Ufficio si prevedeva un responsabile e un coordinatore dei tre responsabili come Vicario per la pastorale. Alla Parrocchia veniva riconosciuto il suo ruolo fondamentale storicamente anche se si evidenziavano alcuni limiti che ne diminuivano l’efficacia: “differenze di comportamento e di prassi pastorale esistenti tra le diverse parrocchie” (n. 147), uno stile autoritario, poco dialogo nei preti, mancanza di “corresponsabilità dei laici”, poca presenza dei Consigli di partecipazione a livello parrocchiale. Si indicava quindi la necessità di un maggior coordinamento di Zona con la pastorale diocesana senza perdere di vista la caratteristica della parrocchia di essere una famiglia di famiglie. Preoccupazione era espressa per la crisi vocazionale dei sacerdoti e si incoraggiava la Diocesi a rendersi responsabile della preparazione delle vocazioni non soffocando ma incoraggiando la proposta ai giovani. Doveva essere costituita una Commissione di sacerdoti e laici per aiutare i superiori del seminario, nella loro missione di formatori secondo gli orientamenti di vita seminaristica emanati dal Vescovo a cui doveva aggiungersi anche un regolamento. Voi sapete che nei prossimi giorni incominceranno a fare il loro ingresso i seminaristi nei nuovi ambienti del seminario interdiocesano a Betania, raggruppati insieme in vita stabile e non più solo nello studio.

Infine il Sinodo dedicava una riflessione sulle persone al servizio dell’evangelizzazione e facendo passare tutti i ministri e i ministeri della Chiesa ricordava a tutti, qualunque grado appartenessero, il dovere di essere a servizio dei loro fratelli perché “solo così potrà esservi comunione di spirito nel cammino verso il Regno” (n. 150). E qui si sottolineava, come anche Verona ha fatto, come i laici non siano cristiani di serie “b” ma discepoli del Signore chiamati a vivere la fede nella realtà di tutti i giorni, cioè nella famiglia, nella società, nel lavoro, nella cultura, nell’economia; per questo “essere laici è una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia ad un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà terrene quotidiane” (n. 157). La Consulta diocesana delle Aggregazioni laicali doveva essere il luogo delle attività comuni dell’apostolato laicale associato; così pure le Confraternite e le altre Associazioni locali dovevano rinnovarsi e coordinarsi con la pastorale parrocchiale e diocesana. Infine si incoraggiava il dialogo ecumenico pur con tutti i limiti teorici, generali e anche locali che vi possono essere.

Il Convegno di Verona 

Ho fatto una rapida sintesi di quelli che sono i punti salienti del Sinodo, e ora passo al Convegno di Verona. Ho avuto la grazia di poter partecipare per la prima volta all’Assemblea della CEI proprio quando si è discusso la stesura finale di questa Nota pastorale a conclusione del IV Convegno della Chiesa italiana tenutasi a Verona nell’ottobre 2006. Vorrei, insieme a voi, cogliere alcune importanti indicazioni con cui si mette a disposizione delle Chiese locali il prezioso patrimonio dei lavori di quelle giornate di grazia: non furono solo giornate di studio, ma esperienza di Chiesa. Lo scopo mio nel presentare queste mie sottolineature è quello di poterle poi integrare con la verifica del nostro Sinodo per partire in modo aggiornato e comune con l’intera Chiesa italiana. Il titolo di questa Nota pastorale che riprende quello del Convegno: “Testimoni del Cristo risorto speranza del mondo” è: “Rigenerati per una speranza viva, testimoni del grande ‘sì’ di Dio all’uomo”. Riprende e nello stesso tempo amplia il documento preparatorio, recependo il contributo magisteriale che Papa Benedetto XVI ha dato allo stesso Convegno con i suoi interventi; non fu solo il convegno dei Vescovi, dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici; ma anche il Papa, il Vescovo di Roma, ha attuato la sua missione di “confermare i fratelli nella fede” dando un contributo che è stato recepito sia nel titolo come anche in alcune sottolineature del testo del documento; leggendo la Nota pastorale, infatti, vedrete che non è un riassunto, ma una rielaborazione e un discernimento su tutta la gran massa delle cose che si sono dette al Convegno. Il Papa ha voluto mettere Dio come protagonista della salvezza degli uomini: è per questo che nel titolo vi è “il grande ‘sì’ di Dio all’uomo” e i credenti sono testimoni in quanto rispondono con il loro ‘sì’ a questo ‘sì’ di Dio con una fede che si abbandona al suo amore, diventando poi portatori di speranza per il mondo: “rigenerati per una speranza viva”; nella misura in cui si è rigenerati si è capaci di essere speranza e testimoni di speranza. Nel suo discorso, Benedetto XVI dopo aver sottolineato l’importanza della scelta di porre Cristo risorto al centro del Convegno, ha messo in rilievo che “la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso. Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio che è l’amore davvero più forte della morte. Questa comunione di amore e di intima unione con Dio, di Cristo con il Padre è trasmessa a noi dalla potenza della risurrezione a cui noi partecipiamo se rimaniamo a nostra volta uniti a Cristo con un sì di amore, così che non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me”. Il Papa ricorda anche ciò che aveva scritto nella sua Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’inizio della nostra testimonianza di credenti –  non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la persona di Gesù Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Queste le parole del Papa recepite nella Nota: è importante non partire dall’essere testimoni ma dall’essere rigenerati e quindi testimoni. E tuttavia il Papa continua a dire che il fondamento di tutto è l’amore che riceviamo prima di poterlo dare; questo è l’aspetto personale e comunitario perché chi è amato ama e chi ama non può chiudersi in se stesso. Non è una forma di individualismo o intimismo religioso ma l’esplosione da una scintilla di amore.

La Nota ha recepito questa chiave di lettura fornita dal Pontefice e che deve guidare anche le nostre prospettive pastorali: l’incontro di fede nel Dio che è amore manifestato in Cristo morto e risorto è il fondamento da cui partire per ogni missione di testimonianza senza il quale anche il miglior piano pastorale non ha efficacia. Benedetto XVI ha incoraggiato la Chiesa in Italia a cogliere il momento favorevole; ci sono degli ostacoli ma il momento è favorevole. Nonostante il vento di una cultura illuministica e laicistica che vorrebbe escludere Dio, il Papa rimarca il valore della tradizione cristiana che esprime le radici del nostro popolo proprio nel Vangelo e quindi è una occasione in cui la Chiesa può dare risposta di significato al crescente smarrimento di “una ragione che ha sfiducia in se stessa e nella verità”. Non nega le difficoltà che si vedono e che noi incontriamo, ma ci avverte che questa è una sfida anche perché la gente immediatamente è più attratta da ciò che è facile e da ciò sembra una maggiore prospettiva di liberta e di piacere della vita, ma comincia ad avvertire l’inganno di questa prospettiva e ricercare i fondamenti e il ritorno all’essenziale.

La Nota pastorale traduce l’esperienza del Convegno in tre scelte di fondo che devono anche diventare “un metodo di lavoro”, da qui l’analogia con il Sinodo: “il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa”; “la testimonianza, personale e comunitaria come forma dell’esistenza cristiana”; “una pastorale che converge sull’unità della persona”. Nel primo ambito viene recepita l’impostazione data da Benedetto XVI: non sono le nostre opere a sostenerci ma l’amore con cui Dio ci ha rigenerati in Cristo e con cui attraverso lo Spirito continua a darci vita. Ne segue che la spiritualità cristiana, a differenza di un spiritualismo disincarnato, è lasciare che il Signore operi nella nostra vita quotidiana e la trasformi con la forza travolgente del suo amore. Solo così siamo uomini e donne del risorto con l’ascolto della Parola e la comunione nell’eucaristia memoriale del sacrificio di Cristo. I credenti possono essere testimoni di speranza per tutti nella storia terrena, una storia però aperta alla dimensione futura in cui saranno risolti definitivamente le contraddizioni di questo mondo. È una prospettiva essenziale e piena che la Nota dà al primo ambito, quello del primato di Dio nella vita e nella pastorale. Per quanto riguarda la testimonianza, dopo averne ripreso il fondamento nel ‘sì’ di Dio all’uomo, la Nota pastorale indica nella vita quotidiana “l’alfabeto” per comunicare il vangelo e indica cinque ambiti su cui si sono svolti i lavori del Convegno: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza. Non entro in questi temi, ma certamente rappresentano un forte segnale della necessità che l’evangelizzazione si incarni nella vita dell’uomo per diventare cultura, non nel senso intellettualistico, ma modo di pensare e di agire della nostra gente secondo un progetto che non può essere artificiale, solo intellettuale, ma “deve cogliersi e tradursi nelle sue forme ordinarie e popolari” (n. 13) coinvolgendo “tutti, a partire dalle situazioni abituali dell’azione pastorale, fino alla promozione anche a livello locale, di particolari occasioni e luoghi di confronto, secondo la ‘dinamica della rete’ e dell’ integrazione pastorale”. Ciò facendo con saggio discernimento si affrontano due questioni che rendono problematica la situazione odierna, ma anche occasione di risposta: la questione antropologica e la questione della verità. I cristiani possono contribuire a ridare senso alla persona umana con una risposta ad una domanda che cosa sia e che cosa significa essere uomo e come pure sconfiggere “la sfiducia verso la capacità dello spirito umano di raggiungere una verità non puramente soggettiva e provvisoria, bensì oggettiva e impegnativa”. Per fare ciò però è necessario raccogliere la “sfida educativa”, dare cioè un contributo cristiano nella formazione delle nuove generazioni con un accompagnamento personale. In questo si inserisce l’analogia forte con il problema dell’iniziazione cristiana: “Non accontentandosi di rivolgersi solo ai ragazzi e ai giovani, ma proponendosi più decisamente anche al mondo adulto, valorizzando nel dialogo la maturità, l’esperienza e la cultura di questa generazione” (n. 17). L’interesse per la vita concreta delle persone porta la Chiesa ad impegnarsi anche per il bene della società umana non per sconfinamento di campo o per interesse politico, ma per obbedire alla sua missione di “offrire il suo peculiare contributo per costruire il futuro della comunità sociale in cui vive e alla quale è legata da vincoli profondi” (n. 18) al fine di creare una società più giusta e fraterna con l’amore che la spinge primariamente a soccorrere gli ultimi e i poveri, come dice il Papa nella sua Enciclica Deus caritas est: “per quanto l’ordinamento statale sia giusto non potrà mai fare a meno dell’amore”.

Per essere una Chiesa di speranza i cristiani devono essere, secondo la tradizione, un popolo santo che rifugge da una religione di élites o da una religione civile, come si dice oggi, o di un cristianesimo minimo, e che adotta “una pastorale più vicina alla vita delle persone, meno affannata e complessa, meno dispersa e più incisamente unitaria” (n. 20). È necessario dunque un cantiere di rinnovamento pastorale secondo alcune prospettive che la Nota indica nella centralità della persona e della vita, nella qualità delle relazioni all’interno della comunità, nelle forme di corresponsabilità missionaria e integrazione tra le diverse dimensioni della pastorale e nella convergenza tra le aggregazioni ecclesiali.

Mi limito ad accennare solo all’importanza che ha la centralità della persona nell’azione pastorale in coerenza con la sostanza della fede che è incontro personale con Cristo, non individuale; il richiamo alla cura delle relazioni con le tre parole chiave che il convegno ha voluto formulare: comunione, corresponsabilità e collaborazione; per sfociare, infine, in una spiritualità di comunione. Mi fa piacere questa sottolineatura perché è anche quello che dobbiamo cercare di far nostro anche in questi due giorni. E non sono solo metodi, tecniche per lavorare meglio, ma  partecipazione comune dell’unico amore che viene da Dio e che deve testimoniarsi tra di noi sia come comunità di cristiani che come presbiterio. La Nota si conclude invitando a guardare al futuro con una gioiosa speranza ben consapevoli che “in questo cammino non siamo soli. Lo Spirito del Risorto continua a spingere i nostri passi, ad attenderci nel cuore degli uomini, ad allargare gli orizzonti ogni volta che prevale la stanchezza e l’appagamento” (n. 30).

Alcune osservazioni (

Qualche mio commento mi pare necessario prima di lasciare spazio alle vostre riflessioni di gruppo. Vorrei dare atto al mio predecessore e all’intera Chiesa alessandrina, specialmente a coloro che hanno organizzato e realizzato il Sinodo della chiaroveggenza e della audacia circa il rinnovamento della pastorale che, in qualche modo, in alcuno casi, hanno anticipato nei termini il Convegno di Verona. Mi pare che l’intuizione di fondo, cioè che il fondamento dell’azione della Chiesa non sono le nostre attività, anche se ben organizzate come doveroso, ma l’adesione a Cristo Signore sia comune al Sinodo di Alessandria e al Convegno di Verona. Ne segue che per entrambe è necessario dare il primato a Dio, alla sua parola e al suo amore.

Così pure comune alle due assise è la sottolineatura delle necessità di una testimonianza personale e comunitaria della fede nel Risorto, ma questa testimonianza è possibile ed efficace solo se scaturisce da una fede matura. Da qui la comune sottolineatura della importanza della formazione cristiana e della cura non solo dei ragazzi e dei giovani, ma anche degli adulti; questo vuol dire che dobbiamo portare alla maturità i ragazzi e i giovani, con particolare attenzione al ruolo dei laici e della famiglia come soggetto e non solo oggetto della nostra pastorale. Forte in entrambe i fronti è la sottolineatura delle necessità del coordinamento di tutti i soggetti della pastorale, per esprimere visibilmente la natura della Chiesa come popolo di Dio unito nell’essere e nell’agire perché mandato da un unico buon Pastore; questa azione comune si concretizza specialmente, non esclusivamente, nella comunità parrocchiale.

Ma non mancano delle differenze tra il Sinodo e il Convegno di Verona, che vanno prese non come contrapposizione, ma come integrazione, aggiornamento e prospettiva rispetto agli anni passati dalla celebrazione del Sinodo; differenze e sfumature che siamo chiamati a prendere in considerazione come dono dello Spirito come è stato il Sinodo, così pure il Convegno di Verona, che ci permette di essere parte di una Chiesa che è in Italia, in spirito di comunione secondo quanto è stato raccomandato dal Convegno stesso.

Una prima differenza mi pare di coglierla circa l’analisi della situazione attuale della Chiesa e il suo passato; il Convegno, ma soprattutto il Papa, sono meno negativi circa il passato nel senso che nonostante si riconoscano le insidie della cultura dominante e l’insufficienza di quella passata, mettono in evidenza le opportunità nuove che il nostro tempo offre ad una Chiesa in stato di missione. In questo contesto il passato, fatto di tradizione e devozione, è visto più positivamente e cioè come un patrimonio che ha permesso alla Chiesa in Italia di rimanere vicino al popolo. Certo sia per il Sinodo, sia per il Convegno è necessario un rinnovamento della pastorale, ma nel senso della continuità più che della discontinuità. Ricordate l’intervento del Papa circa la chiave ermeneutica di lettura del Concilio Vaticano II: “non si tratta di rifondare la Chiesa, ma di rinnovarla”. Ma questo non solo in questo scorcio storico è necessario, sempre è stato così; tuttavia vi è una continuità che deve essere sempre rinnovata.

Un’altra sfumatura di impostazione che viene dal Convegno rispetto al Sinodo è la forte sottolineatura della vita ordinaria come luogo della testimonianza: le cinque aree di approfondimento su cui si è discusso al Convegno ci hanno permesso di vedere non tanto le idee e le organizzazioni ma la vita della gente, delle persone, delle famiglie del nostro popolo. Ciò indica la priorità che è da dare alla costruzione di comunità cristiane che al loro interno vivono il Vangelo stabilendo delle relazioni di amore come punto di partenza della testimonianza cristiana nel mondo. Anche se piccolo gregge queste comunità di amore possono essere lievito che fermenta tutta la massa. Certo è anche necessaria l’organizzazione, la programmazione, le strutture, ma senza questa testimonianza di cristiani e di preti che stanno insieme per amore di Dio, tutto il resto potrebbe anche trasformarsi in contro-testimonianza. C’è una Chiesa forte, una Chiesa istituzionale, una Chiesa di potere, come sovente ci accusano a volte anche calunniando, ma non dobbiamo dimenticare che spesso siamo chiamati a fare un esame di coscienza su questo e non solo respingere la critiche. Il Convegno ha messo al centro della pastorale la persona definendola “cuore della pastorale” al fine di “ricondurre all’unità l’azione ecclesiale necessariamente multiforme”. Il Convegno notava che “l’attuale impostazione pastorale centrata prevalentemente sui tre compiti fondamentali della Chiesa (l’annunzio del Vangelo, la liturgia e la testimonianza della carità), pur essendo teologicamente fondata, non di rado può apparire troppo settoriale e non è sempre in grado di cogliere in maniera efficace le domande profonde delle persone: soprattutto quella di unità accentuata dalla frammentazione del contesto culturale” (n. 22). Di qui l’esigenza anche per la verifica del Sinodo di mettere la persona al centro della pastorale e “chiedere alle strutture ecclesiali di ripensarsi in vista di un maggior coordinamento”(ib). Ritengo importante tener presente questo nella nostra verifica.

Piena sintonia invece tra Sinodo e Convegno sulla conclusione, il richiamo cioè di tutte e due le Assemblee alla speranza, al coraggio che si poggiano non sulla nostra capacità di organizzarsi, di essere insieme, di fare e di pensare, ma sulla presenza dello Spirito che compie attraverso di noi l’opera della salvezza di Cristo. Ci viene chiesto prima di fare, di abbandonarci; prima di vivere di morire: è il mistero pasquale che è per noi una sfida e la forza della nostra fede. Mi piace sottolineare, infine, la consapevolezza della potente intercessione di Maria madre della Chiesa, che “in Italia è invocata con mille nomi” e noi qui in Alessandria con il nome di Madonna della Salve; ci ancoriamo a questa sottolineatura della presenza di Maria come Madre nostra e della Chiesa.