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Gli inizi della chiesa alessandrina – Scarica il file
Roberto Livraghi

1 Facciamo dunque l’elogio degli uomini illustri dei nostri antenati per generazione.
2 Il Signore ha profuso in essi la gloria la sua grandezza è apparsa sin dall’inizio dei secoli.
3 consiglieri per la loro intelligenza e annunziatori nelle profezie.
4 Capi del popolo con le loro decisioni e con l’intelligenza della sapienza popolare; saggi discorsi erano nel loro insegnamento.
7 Tutti costoro furono onorati dai contemporanei furono un vanto ai loro tempi.
8 Di loro alcuni lasciarono un nome, che è ancora ricordato con lode.
12 La loro discendenza resta fedele alle promesse e i loro figli in grazia dei padri.
13 Per sempre ne rimarrà la discendenza e la loro gloria non sarà offuscata.
14 loro corpi furono sepolti in pace, ma il loro nome vive per sempre.
15 I popoli parlano della loro sapienza l’assemblea ne proclama le lodi.

Così, nella S. Scrittura, Jeshoua ben Sira – detto il Siracide – al capitolo 44, inizia la sua riflessione sulla storia del popolo di Israele e – in particolare, soffermandosi sui santi ricorda le opere meravigliose che il Signore ha compiuto tramite loro. Le parole del Siracide ci hanno accompagnato nella redazione di questi brevi appunti relativi alla storia della nostra diocesi che si è voluto iniziare partendo dalla sua sede naturale: la cattedra del vescovo.

Sulla piazza della cattedrale di Alessandria, a destra guardando la facciata, esiste una colonna di granito al culmine della quale si trova un piccolo baldacchino metallico con all’interno un crocifisso. Un tempo era collocata – come racconta il canonico Berta nella sua Cronistoria alessandrina ‘in capo alla strada maestra contro alla Rocchetta verso Bormida’. In occasione dell’atterramento della chiesa di san Siro fu trasportata in piazza del duomo. Essa ricorda due avvenimenti richiamati dalle epigrafi alla sua base. La prima reca un’iscrizione in memoria della predicazione che ai piedi della colonna effettuò san Vincenzo Ferreri alla presenza di san Bernardino da Siena: ‘Pristinum religionis monumentum ss. Vincentii Ferreri et Bernardini senensis praedicationibus illu­stre ab aevi iniuriis vindicandum posteris solidius elegantiusque trasmitten­dum curavit municipalis potestas an. MCMXXXII’. Sulla seconda che è quella che più ci interessa, si leggevano queste parole: ‘Quam Syro Petri ap. discipulo eo primo praecone christiani ad tanari pontem columellam dedica­runt et munimentorum militarium necessitas an. MDCCCV sustulerat cura tores tem­pli principis ex voto alexandrino hic an. MDCCCXXVIII gestientes restituerunt’ (‘Questa colonnina che i nostri padri innalzarono – presso il ponte del Tanaro – a Siro discepolo dell’aposto­lo Pietro – essendo quello il primo banditore della fede cristiana – e che l’urgenza delle fortificazio­ni militari – aveva indotto a togliere nell’anno 1805 – gli amministratori del massimo tempio della città – per volontà degli alessandrini – qui ricollocarono – esultanti di gioia nel 1828’). E’, quindi, antichissima e costante tradizione considerare san Siro, protovescovo di Pavia, il primo evangelizzatore della nostra terra. Non si vuole qui entrare nella disputa sul fatto che il santo fosse o meno discepolo di san Pietro ed in quale secolo sia vissuto. Certo è che visse nel II secolo circa e che, estendendosi la diocesi pavese sino alle nostre terre, è naturale che egli, quale vescovo, si occupasse dell’evangelizzazione delle genti a lui affidate. Il  Lumelli, infatti, ci dice che ‘eundem Sirum, vel ipsum Dei verbum praedicasse, vel disci­pulos suos ad ibidem praedicandum misisse… ad incolas Tanari fluminis, finitimasque regio­nes…’ . Inoltre, continua il Lumelli, ‘in memoriam tanti viri in Rovereto’ fu eretta e a lui dedicata una chiesa che per questo, come afferma il Chenna, con la chiesa di santa Maria di Castello può… emulare d’antichità.

Rovereto, in un diploma dell’imperatore Federico I del 1164, viene detto essere ‘in episcopatu papiensi’.

Nella nostra diocesi sono molti i paesi che hanno conservato e conservano tuttora memo­ria di questa tradizione. Il più importante fra tutti, Pecetto dove si trovava un ospedale detto, appunto, di san Siro ricordato in una carta dell’abbazia di Nonantola del 990. Nell’antico ufficio proprio della diocesi alessandrina, san Siro veniva celebrato il 9 dicembre. V’è peraltro da dire che quella di san Siro, pur essendo la più importante, non è la sola tradizione riguardante gli evangelizzatori delle nostre terre.

Tutti gli storici di cose piemontesi concordano che nella nostra regione il cristianesimo cominciò a diffondersi dal I secolo nei centri più popolosi. Quindi è giocoforza richiamarsi ai centri romani più importanti e più immediatamente vicini ad Alessandria: Milano, Pavia, Tortona ed Acqui. Infatti, poichè – nei tempi apostolici o immediatamente successivi e fino al XII secolo, prima dell’istituzione della nostra diocesi – sull’alessandrino avevano giurisdizione, oltre a quella di Pavia, anche le diocesi di Tortona e di Acqui e comunque tutto il territorio dell’ltalia nord occidentale apparteneva all’arcidiocesi metropolitana di Milano, sicuramente altri santi protocristiani di tali città – specialmente vescovi – operarono nelle nostre zone. Gli studiosi delle antiche cronache parlano di san Nazario che si fermò nei dintorni durante il suo passaggio per Milano di cui era vescovo; subito dopo, di san Siro e di san Marziano, primo vescovo di Tortona. L’importanza del culto di san Nazario è testimoniata dal fatto che esso è associato al capitolo della cattedrale. A Quargnento esistevano, addirittura, due chiese a lui dedicate: una detta di Appiano, dal nome della località in cui sorgeva, ed affiancata al monastero benedettino di san Bernardo; l’altra, citata in un diploma di Enrico III del 1041, identificata con il predicato de Meglarinis. Nel 1324 – significativamente – la prima, con i suoi beni, veniva assegnata come beneficio all’arcidiacono del capitolo della cattedrale che – come si dirà in seguito – era a capo della diocesi; la seconda, all’arciprete dello stesso capitolo. Purtroppo, riferisce il Lumelli, nel 1500 queste chiese non esistevano più. Sul luogo ove si trovava la chiesa di san Nazario di Appiano, lo stesso capitolo della cattedrale nel 1840 fece costruire un tempietto che reca la seguente iscrizione: ‘D.O.M./S.M. Nazario/cui templum dicatum cum monasterio/hic adhuc extabat A. 1350/hanc aediculam/super ipsis sacris ruderibus/can. coll. cath. alexandrinae/excitan­dum curavit/A. 1840’ (‘Al s. martire Nazario in questa località esisteva nel 1350 una chiesa con annesso monastero. Questa edicola fu eretta in suo ricordo dal capitolo dei canonici della cattedrale nel 1840 sui sacri ruderi’).

Anche di san Marziano vi erano molte memorie e l’antico ufficio proprio della nostra diocesi lo celebrava il 6 marzo. In un atto del 1107, si parla di un ‘Ecclesia sancti Marciani di Rovereto’; in un altro atto 1153 si cita a Marengo una chiesa dedicata al santo e, addirittura, da un ulteriore atto dell’836 si apprende che la parrocchia di Alfiano Natta, ora in diocesi di Casale Monferrato, era dedicata a lui.

A questi bisogna aggiungere sant’Eusebio, vescovo di Vercelli verso il 354, che nella sua lettera alle comunità piemontesi si rivolge esplicitamente anche alla diocesi di Tortona.

Infine, il nostro santo eremita Baudolino di Villa del Foro, vivente nell’VIlI secolo a riprova di quanto detto finora, quando fu accusato da alcuni malevoli dovette discolparsi verso i vescovi di Acqui (alla cui diocesi, peraltro, apparteneva) e di Tortona. La sua esistenza nella nostra terra, nel periodo longobardo, durante il regno di Liutprando, è attestata sia da Paolo Diacono nella ‘Historia longobardorum’, sia dall’anonimo monaco croni­sta dell’Abbazia della Novalesa nel ‘Chronicon novaliciense’.

Comunque, subito dopo la formazione della città, il pontefice Alessandro III, nel 1175, secondo la ben nota tradizione, ‘recepta istantissima petitione Galdini, Mediolanensis archie­piscopi, Apostolicae Sedis legati, et consulum Mediolanensium, nec non etiam rectorum Lombardiae et Marchiae, decorat Ecclesiam et Civitatem, quae in honorem beati Petri et ad profectum et exaltationem totius Lombardiae aedificata est, pontificali dignitate; et concedit Arduino subdiacono apostolico, quem eis in episcopum et pastorem concessit, et successo­ribus eius ius episcopale’.

Va detto che nel 1170 gli alessandrini offrirono al papa, in segno di riconoscente amicizia, l’area sulla quale stavano edificando la cattedrale, dedicata a san Pietro. Come dicono i croni­sti, i consoli di Alessandria dichiararono al papa: ‘Deo et beato Petro, et vobis praefato D. Papae Alexandro… in perpetuum terram proprii juris nostri, quae est in praedictam civitatem quam populus ipsius ad constituendam sibi ecclesiam emit’. Successivamente, nel 1176 il pontefice – considerato che il vescovo Arduino era stato nominato in deroga all’allora universale principio elettivo – assicurò i canonici alessandrini che per il futuro ‘vos et successores vestri de episcopis vetris liberam electionem habeatis, sicut canonici Ecclesiarum cathedralium, quae in Mediolanensi Ecclesiae subiacent, habere noscuntur’. A ciò seguì l’istituzione formale del capitolo dei canonici della cattedrale formato da sette titoli e tre dignità (prepositura, arcipresbiterato e cantorato).

E’ interessante precisare le zone che formarono in origine la nostra diocesi. Alla nuova cattedra vennero destinati gli otto paesi che, negli immediatamente precedenti, avevano collaborato alla formazione e, poi, al rafforzamento del centro alessandrino: Rovereto, Marengo, Gamondio, Borgoglio che diedero vita al primo nucleo e trasmisero i loro nomi ai quartieri cittadini; Solero, Oviglio, Quargnento e Villa del Foro che diedero uomini ed appoggi in un secondo tempo. Quindi, anche dal punto di vista ecclesiastico, Alessandria conservò la ripartizione nei quattro luoghi originari. Ad essi furono legati gli altri centri religiosi della diocesi, esterni alla città, che furono ripartiti in quattro sezioni, a seconda dell’area geografica verso la quale gravitava ciascun settore della città.

L’esame dei documenti consente di delineare l’estensione della diocesi in modo abba­stanza preciso. Il confine correva lungo il Tanaro, considerato che non vi sono riferimenti a giurisdizioni alessandrine oltre tale fiume. Entrava, poi, nel basso Monferrato con le zone di Lu, Cuccaro e Fubine; comprendeva Quargnento, Solero, Felizzano, Villa del Foro, Oviglio, Bergamasco e Carentino; risaliva, lasciando fuori Gamalero, giungendo nelle terre di Casalcermelli, Castelspina e Portanuova. Sul lato orientale la determinazione del limite diocesano è meno precisa: erano zone ancora scarsamente popolate, boscose, con corsi d’acqua che provocavano frequenti variazioni. Vi si trovava una forte propaggine della diocesi di Tortona che giungeva fino all’Orba, con la chiesa di san Giovanni d’Orba sulla riva sinistra del fiume. Più a nord il confine della diocesi di Alessandria comprendeva tutta l’area di Marengo espandendosi a oriente, nella Fraschetta, fino a San Giuliano; mentre a occidente, arrivava a Castelceriolo e si chiudeva sul Tanaro.

Le vicende dei primi anni di vita della nostra diocesi sono assai complesse e sono direttamente collegate alla storia dell’espansione dell’influenza del nuovo Comune di Alessandria nella zona circostante. Il professor Geo Pistarino nel suo pregevolissimo studio su ‘Alessandria nel mondo dei Comuni’, comparso su ‘Studi medievali’ (fasc. I – giugno 1970), ha – si può dire – definitivamente chiarito lo sviluppo dell’avvio di Alessandria. Rifacendosi, necessariamente, a quest’opera si deve affermare che l’istituzione della cattedrale, la nascita e la configurazione della diocesi costituiscono i primi, veri e propri, atti giuridici di riconoscimento della nova civitas che si era formata. Più significativamente, costituiscono – altresì – il primo momento della creazione di un’area di contado, con struttura omogenea, intorno alla stessa città ed anche stabiliscono la linea direttrice – seguendo la quale – si svilupperà il territorio alessandrino: verso sud, cioè verso Genova. Non si può non rilevare che ancora oggi la configurazione geografica della stessa provincia è maggiormente sviluppata in tale direzione. Per questo, si può dire che l’imprinting di papa Alessandro III sulle nostre zone è notevolissimo e ne segna tuttora l’assetto territoriale. In ciò si trova anche la ragione della lunga contesa con il vescovo di Acqui dalla cui diocesi fu smembrata la maggior parte del territorio alessandrino. Nel 1180, lo stesso Alessandro III ratificò la costituzione del capitolo dei canonici della cattedrale stabilita ‘de assensu cleri et populi’ dal nuovo vescovo eletto Ottone e confermò ai canonici le chiese già assegnate ‘in titolo e prebenda’: santa Maria di Gamondio, san Dalmazzo di Marengo, san Michele di Solero, santo Stefano di Borgoglio, santa Trinità di Oviglio, sant’Andrea di Rovereto e sant’Agostino di Foro. Nello stesso anno, forse nel tentativo di sanare il dissidio con Acqui ma salvaguardando la posizione di Alessandria, il medesimo pontefice unì le due diocesi sotto il titolo della secon­da ed annullò l’elezione del nuovo vescovo di Alessandria, Ottone, non potendo o non volendo procedere alla sconferma dell’ordinario di Acqui al quale impose la residenza di Alessandria. In quegli anni era vescovo di Acqui Uberto, da poco reintegrato nella sua dignità dopo una scomunica che lo aveva colpito perchè troppo filoimperiale. Tuttavia, l’eletto alessandrino rifiutò di accettare la propria deposizione e l’ordinario acquese non si mosse dalla sua cattedrale e la questione, per non inasprire ulteriormente la situazione, fu così ‘congelata’ per parecchio tempo. Essa fu ripresa da papa Innocenzo III che il 12 maggio 1205 delegò alcuni presuli, fra i quali il vescovo di Tortona, a provvedere di un ordinario la diocesi alessandrina, secondo le disposizioni di Alessandro III del 1180. Il vescovo di Acqui, Ugo Tornielli, si mostrò disponibile ad accettare le disposizioni papali e si trasferì ad Alessandria.

Dopo due incontri, peraltro senza esito positivo, con gli alessandrini e gli acquesi, i legati pontifici procedettero unilateralmente all’unione delle due diocesi con nuove condizioni. I termini della nuova unione furono definiti dallo stesso Innocenzo III in un breve dell’8 giugno dello stesso anno: un solo vescovo, due sedi principali cioè doppio titolo, residenza dell’ordinario per sei mesi nell’una e sei mesi nell’altra; le più importanti celebrazioni ad anni alterni in Alessandria ed in Acqui e così via, evitando con cura la benchè minima prevalenza di una sede sull’altra. Fu una decisione che scontentò tutti: gli alessandrini che aspiravano ad avere un vescovo proprio e non ‘trasferito’; gli acquesi che consideravano tale decisione come una soppres­sione di fatto della loro diocesi. In tutta questa vicenda furono determinanti anche le implicazioni di carattere politico riguardanti i rapporti che, in generale, gli alessandrini avevano con il papato e le alleanze necessarie a consentire da una parte un minimo di espansione che garantisse la sicurezza del Comune con l’ampliamento della propria area di influenza; dall’altra, adeguati sbocchi commerciali e di mercato. Adducendo motivi di salute, il Tornielli si dimise dal Vescovado il 12 novembre 1213.

Cinque anni dopo gli alessandrini ripresero le relazioni amichevoli con il papato e l’anno seguente versarono il censo (arretrato di tredici anni) al quale si erano obbligati dalla fondazione della città. Pure nel 1218, alla fine di luglio, Alessandria stipulò un’alleanza politico-militare con Acqui e – ancorchè fosse dichiarata salva l’unione delle due diocesi nei termini stabiliti da Innocenzo III – la contesa fu definitivamente accantonata. Nessuno dei Vescovi successivi ebbe più la doppia residenza nominale né rivendicò alcunché e – non provvedendosi più alla nomina di vescovi alessandrini e non intervenendo la diocesi di Acqui – la nostra fu governata dal capitolo della cattedrale. Finchè nel 1235, con la costituzione dell’arcidiaconato – come prima dignità – l’arcidiacono la governerà quale vicario, nato ed eletto, capitolare. A questa situazione nessuno si oppose in quanto era giuridicamente fondata poichè il titolo della diocesi di Alessandria non era stato soppresso ma unito a quello di Acqui il cui vescovo, peraltro, non si occupò mai degli affari della Chiesa alessandrina. Essa, quindi, venne governata da coloro che, in Alessandria, rivestivano la seconda dignità essendo la prima – quella ‘pontificale’- di fatto sede vacante.

Tale stato di cose durò fino al 1405, quando Innocenzo VII nominò vescovo Bertolino Beccari, alessandrino, come ricorda il Lumelli nel ‘De civitate alexandriae’ (ad annum 1405): ‘Die vigesimo quinto mensis ianuarii Bertolinus Beccari bergoliensis, ordinis fratum eremitarum sancti Augustini, magisterque theologiae datur episcopus Alexandrinis ab Innocentio VII summo pontifice…’. Da allora in poi la serie dei vescovi è ininterrotta.

Alessandria, come si è detto, fin dall’inizio della sua storia apparteneva all’arcidiocesi di Milano. Questo legame era richiamato anche da alcune particolarità. A Borgoglio – dove fino al concilio di Trento si officiava in rito ambrosiano – il monastero di san Pietro era alle dipendenze dell’arcivescovo di Milano e la chiesa collegiata di santa Maria, ancora nel 1336, era ‘sanctae ecclesiae Mediolanensi subiecta’ e addirittura nel 1697 il suo sigillo recava l’immagine di sant’Ambrogio che pure era dipinta sul campanile della chiesa unitamente allo stemma di Alessandria ed alla parola libertas. Anche sul piano più strettamente civile, la città ed il suo contado furono comprese nel ducato di Milano fino al trattato di Utrecht deI 1713, quando – a conclusione della guerra di successione spagnola – gli austriaci occuparono la Lombardia e la smembrarono cedendo al duca di Savoia, Vittorio Amedeo Il, Alessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia che ancora nel 1759 – insieme al novarese, al tortonese (passati nel 1738 ai Savoia a seguito del trattato di Vienna, a conclusione della guerra di successione polacca), all’alto novarese, al vigevanese ed al vogherese (passati nel 1748 a seguito del trattato di Aquisgrana, a conclusione della guerra di successione austriaca) – era chiamata Lombardia di Savoia. Alessandria fu perciò staccata dalla Lombardia alla quale la legavano l’appartenenza e le tradizioni storiche, addirit­tura, antecedenti alla sua fondazione e divenne, come si legge negli atti del governo sabau­do, ‘provincia di conquista o di nuovo acquisto’ tappa fondamentale dell’espansione del ducato di Savoia verso la pianura padana.

I vescovi di Alessandria – pur rimanendo la diocesi suffraganea di Milano – vennero da allora in poi nominati su proposta del capo di casa Savoia. Di tale proposta, però, non verrà mai fatta menzione nelle bolle pontificie di nomina in quanto la diocesi di Alessandria – unitamente a quella di Casale Monferrato e di Acqui Terme – era esclusa dall’elenco delle sedi episcopali sog­gette a tale privilegio poiché, nel periodo in cui fu concesso (il 10 gennaio 1455 da papa Nicolò V), non apparteneva ai domini di casa Savoia ma, come si è detto, al ducato di Milano. La diocesi rimase suffraganea dell’arcidiocesi metropolitana ambrosiana fino al 1803 quando, in vista della stipulazione del concordato con lo Stato francese, il papa Pio VII dovette cedere alle imposizioni di Napoleone e – con un breve del 1° giugno – rifuse o soppresse le sedi episcopali piemontesi (Acqui, Alba, Alessandria, Aosta, Asti, Biella, Bobbio, Casale, Fossano, Ivrea, Mondovì, Pinerolo, Susa, Tortona e Vercelli) riducendole a sette (Acqui, Asti, Alessandria alla quale fu unita Casale, Ivrea, Mondovì, Saluzzo e Vercelli) assegnandole all’arcidiocesi metropolitana di Torino.

Con la Restaurazione, lo stesso papa Pio VII – aderendo alle richieste del re di Sardegna, Vittorio Emanuele I – con un breve del 17 agosto 1817, ricostituì le diocesi in precedenza soppresse ed istituì la sede metropolitana di Vercelli assegnandole, quali suffraganee, le diocesi di Alessandria, Biella, Casale e – successivamente, con altro breve del 26 novembre dello stesso anno – quelle di Novara e Vigevano alle quali furono trasferite le parrocchie delle diocesi ex lombarde ed ora in territorio piemontese. Tutte le altre diocesi piemontesi rimasero suffraganee di Torino ad esclusione di quelle di Tortona e di Bobbio che furono trasferite all’arcidiocesi metropolitana di Genova. Così, ancora oggi, si presenta lo stato della diocesi.

In conclusione, si deve dire che queste note sono state scritte senza alcuna pretesa: sono semplicemente un rapido excursus, brevi appunti sulla storia della nostra diocesi e sono aperte ad ogni correzione ed integrazione e, soprattutto, necessitano di essere completate con l’esame e l’illustrazione appropriate dei santi e dei vescovi alessandrini. Esse, tuttavia, non possono essere concluse senza alcune considerazioni che riguardano il nostro essere cattolici oggi. Nel momento in cui si parla di ri-evangelizzazione si deve ricordare che ogni comunità ha i suoi padri della fede: martiri, vescovi, laici, donne coraggiose, soldati, re o semplici schiavi o gente del popolo che hanno per primi piantato la croce nelle nostre contrade, lasciandoci non solo l’esempio ma addirittura l’indicazione di itinerari coraggiosi. La croce che essi hanno piantato tra noi è oggi il testimone. Noi l’abbiamo ricevuta da loro ed ora dobbiamo riportarla agli altri nella consapevolezza che essa non è estranea alla nostra comunità anzi ne è parte essenziale ed, addirittura di fondamento. Con questo spirito si è offerto all’attenzione di chi ha avuto la benevolenza di seguirci, questo notiziario delle origini: se si è riusciti a stimolare l’interesse e l’approfondimento, si sarà raggiunto un buon risultato.