Venite e vedrete

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Venite e vedrete

“Venite e vedrete” è la nuova Lettera pastorale di monsignor Guido Gallese, vescovo di Alessandria, indirizzata “al clero, ai consacrati, ai fedeli laici e a tutti i fratelli di buona volontà“.

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Venite e vedrete

Lettera pastorale 2022-2023

Guido Gallese,
successore degli apostoli di Gesù Cristo presso la Chiesa di Alessandria,
al clero, ai consacrati, ai fedeli laici, e a tutti i fratelli di buona volontà:
pace a voi! 

Parte Prima – Dieci anni

1. Il 25 novembre compirò dieci anni dal mio ingresso in Alessandria come vescovo. Sembra ieri. Sono arrivato con potenzialmente 25 anni davanti a me e già dieci se ne sono andati. È tempo di guardare indietro e fare un bilancio per ripartire di slancio.

2. Questa è la decima lettera pastorale che scrivo. La prima fu al termine del mio primo anno pastorale, e tornando da Lourdes passai a consegnarla ai parroci della città al termine del giorno dei Santi Pietro e Paolo del 2013: era infatti indirizzata ai soli presbiteri. Chiedevo loro quattro cose: la preghiera, la celebrazione quotidiana, la confessione quindicinale e la comunione tra noi. Poi, dalla fine dell’anno pastorale seguente ho cominciato a scrivere una lettera pastorale ogni anno, indirizzata a tutti i fedeli.

3. Talvolta ho pensato che, toccando alcuni temi, ne sarebbero potuti seguire consequenzialmente altri, ma gli eventi della nostra amata Chiesa mi hanno indotto a seguirne i problemi concreti e lo Spirito Santo mi ha spinto in quella direzione. Cerco di ripercorrere il cammino di questi anni. Mi sono chiesto con quale logica farlo, se cronologica, teologica o pedagogica. Ho optato per quest’ultima, come fa la Liturgia, perché lo scopo di questo scritto è la crescita concreta della nostra comunità, non una trattazione storica o teologica.

1.Il punto di partenza

4. Il punto di partenza, proprio in quanto punto di inizio di un cammino, è ciò che si lascia per dirigersi verso una meta che ha qualcosa di attrattivo. Questo è valido a condizione che il viaggio sia libero! Tuttavia, la vita cristiana rende libero ogni viaggio, come vedremo. Quindi il nostro cammino personale e sinodale sicuramente ha un punto di partenza carente, qualcosa che vogliamo lasciare, che non vogliamo faccia più parte del bagaglio della nostra vita, soprattutto quando pensiamo che il Signore è molto esigente con noi (“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” Gv 15,12). Nel contempo c’è qualcosa di nuovo che vogliamo abbracciare, qualcosa di più alto, più bello, più puro, degno del nostro impegno, qualcosa degno dell’intervento di Dio; infatti se cambieremo non sarà per merito nostro, ma soprattutto per l’azione di Dio. Dobbiamo dunque imparare a chiedere ciò che Dio vuole realizzare (“Sia fatta la tua volontà” Mt 6,10), il che comporta imparare a guardare noi stessi, il mondo e le persone con lo sguardo di Dio. Chiedere ciò che Dio vuole, postula la convinzione che sia proprio la cosa migliore per noi, la più bella immaginabile, e questo ci rimanda alla fede che è all’origine del nostro camminare per la via della vita: siamo convinti che debba essere Lui a “dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc 1,79).

Ossa inaridite

5. Dunque, da dove partiamo? Il primo ritiro che predicai ai sacerdoti della nostra amata Chiesa di Alessandria fu a partire da Ez 37: le ossa inaridite. Un brano veramente affascinante: più lo contemplo e più mi lascia stupito per la sua aderenza alla nostra situazione di oggi, non solo in Alessandria, ma più generalmente anche in Italia e nel mondo occidentale. Ne ho fatto il riferimento principale – assieme al suo contesto (Ez 33-37) – della lettera pastorale del 2016-2017 (dal titolo “Misericordiosi come il Padre”), alla conclusione dell’Anno della Misericordia. C’è una valle piena di ossa inaridite: sono state seccate dal sole a tal punto da non dare più nemmeno lontanamente l’idea di poterle collegare con la vita; sembrano piuttosto delle pietre. Ma c’è anche il profeta Ezechiele che, al capitolo 33, viene paragonato ad una sentinella (in greco skopòs) [cfr. Misericordiosi come il Padre, p. 1]. La sentinella ha lo scopo di avvertire del pericolo: se non lo fa ricade su di lei la colpa della morte di chi viene preso alla sprovvista, se lo fa, la responsabilità di tenere conto dell’avvertimento (e le relative conseguenze, come la morte) ricadono su chi non le ha dato retta. Richiamo qui anche ciò che abbiamo imparato nell’approfondimento del libro dell’Apocalisse, al primo anno (Il Logos della profezia, 2019-2020). Gli angeli delle sette Chiese, destinatari ciascuno di una delle sette lettere della prima sezione, erano letteralmente i messaggeri delle Chiese, coloro che dovevano portare il buon annuncio del Vangelo (Euangelion), ossia i pastori delle Chiese. Dunque il profeta ha il compito di parlare a nome di Dio per avvertire le persone, ma non solo: di fronte alla valle con le ossa inaridite deve fare qualcosa di più. Dio si rivolge al profeta: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?» (Ez 37,3). Il profeta si trova di fronte ad un’evidenza schiacciante, ma allo stesso tempo comprende che Dio ha la chiara intenzione di capovolgere le sue credenze, perché nulla è impossibile a Dio, e risponde: «Signore Dio, tu lo sai». Dio, con il suo solito stile, coinvolge l’uomo nelle sue azioni umanamente assurde e gli dice: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò su di voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”» (Ez 37,4-6). Noi pure dobbiamo passare dalla morte alla vita, nella nostra esistenza e nella nostra comunità diocesana, perché il nostro Signore è il Signore della vita ed è venuto a donare la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), portando dentro la sua vita ogni aspetto della nostra vita, riconciliando e redimendo e salvando veramente tutto quello che siamo, senza escludere nulla… Persino il passaggio alle unità pastorali, che stiamo per realizzare, se visto in questa ottica, è un’occasione in cui il Signore può compiere la sua opera di rinnovare la nostra Chiesa, di farla rivivere passando dalla secchezza della morte alla vivacità e fecondità della vita. Possono sembrare affermazioni eccessive e presuntuose, tuttavia sono nello stesso spirito della Liturgia che, ad ogni celebrazione eucaristica – tutti i giorni! – ci fa chiedere perdono dei nostri peccati per farci compiere il medesimo passaggio dalla morte alla vita, che in definitiva è quello del nostro battesimo! Mi sono immedesimato tante volte in Ezechiele per comprendere ed imparare la sua fede: essere davanti ad una valle piena di ossa secche e mettersi ad interloquire con loro è umanamente assurdo e imbarazzante. Tuttavia il profeta si comporta in questo modo perché ha la consapevolezza che Dio stesso gliel’ha chiesto. Guarda le ossa, compie un atto di fede e parla loro. Qui si apprezza lo stupore della testimonianza del profeta: “Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente” (Ez 37,7). Non ha ancora terminato di parlare, che le ossa si accostano le une alle altre e crescono i nervi, la carne e infine la pelle. Poi c’è un’altra profezia: «Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spirito vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”» (Ez 37,9). Il profeta obbedisce ed essi “ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato” (Ez 37,10). Questi due passaggi ricordano i due passaggi della creazione dell’uomo (polvere del suolo e spirito, Gen 2,7). Ma entrambi ricordano anche i due passaggi della creazione e della redenzione, così chiaramente evidenziati nei due inni liturgici dell’Apocalisse:

Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
di ricevere la gloria, l’onore e la potenza,
perché tu hai creato tutte le cose,
per la tua volontà esistevano e furono create. (Ap 4,11)

Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue,
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione,
e hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra. (Ap 5,9-10)

6. Cosa ci insegnano questi testi? Che ci sono in gioco due dimensioni nella nostra vita. La prima è che siamo al mondo! Dio ci ha creati, esistiamo, siamo qua. E ci siamo per una ragione ben precisa: per volontà di Dio. In quest’ottica va letta la vita dell’uomo nel mondo: un’ottica storica, orientata dalla volontà di Dio. La seconda dimensione di cui tenere conto è la redenzione: è un cambiamento totale delle sorti dell’uomo, prodromo di una nuova creazione, che si instaurerà alla fine dei tempi, un mondo senza morte, senza peccato, senza sofferenza, senza lacrime, senza tenebre. Con la redenzione l’uomo – ogni uomo – viene portato ad un livello di vita più alto di quello precedente il peccato originale (o felix culpa!), perché viene reso partecipe del sacerdozio di Cristo, mediante il quale ogni realtà della nostra vita acquisisce un valore soprannaturale, per quanto esecrabile e negativa quella realtà possa essere. L’umanità, in Cristo asceso al cielo, viene accolta nel seno della Trinità e qui, su questa terra, vive un rinnovamento nello Spirito Santo (cfr Tt 3,5) mediante il quale l’uomo, percorrendo il cammino terreno di Cristo, nostro capo, giunge al compimento della promessa: “Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono” (Ap 3,21).

7. Nota bene: il nostro essere in questo mondo a fare la volontà di Dio, da una parte ci dà una lettura di senso che il nostro intelletto può percepire come vera, dall’altra però, dopo un certo tempo, ci espone a una sensazione di impotenza perché il cammino diventa totalmente impervio e improponibile se non siamo immersi nel mistero della redenzione. Questa “immersione” (dal greco baptìzo) non può essere soltanto un evento giuridico o burocratico o iniziatico alla società (cioè in senso umano); chiede invece una piena immersione in una vita concreta, che cambia completamente i suoi riferimenti principali: non più comportarsi bene, secondo norme chiare e condivise, ma essere totalmente affidati al volere di Dio da scoprire giorno per giorno; non più amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze, e amare i fratelli, ma amarci gli uni gli altri come Gesù ha amato noi; non più lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato, ma fare cose più grandi di quelle che Gesù ha fatto (cfr Gv 14,12); non più essere individui al servizio di Dio, ma essere tutti un solo corpo, quello di Cristo! La ragione per cui all’inizio dicevo che la vita cristiana rende libero ogni viaggio è proprio l’inserimento nel sacerdozio di Cristo: esso riesce a trarre vantaggio da ogni svantaggio, da ogni situazione di male, di difficoltà, addirittura di coercizione o violenza.

Punto carta I

Venga il tuo regno, non abbandonarci alla tentazione!

Nel cammino su strade non conosciute, per non perdersi bisogna fare frequentemente il “punto carta”: prendere coscienza del punto in cui siamo, guardando la carta topografica, per proseguire il cammino sulla retta via. Abbiamo avvertito sin da subito il ruolo importante che ha il sacerdozio di Cristo: cambia completamente i riferimenti principali della nostra vita. L’Apocalisse (1,5-6), come pure la Prima Lettera di Pietro (2,9) riprendendo l’Esodo (19,6) ci avevano insegnato che siamo un regno di sacerdoti. Quando si parla di regno di Dio o di regno dei cieli nel Nuovo Testamento, sovente il riferimento è escatologico, ovvero riguarda la fine dei tempi. Ma c’è un modo di vivere il regno di Dio già da quaggiù – ed è quello di cui ci parla l’Apocalisse – che consiste nello sfruttare la potenza del sacerdozio di Cristo. Questo esercizio del sacerdozio non ha effetti sensibili strepitosi, ma ne ha a livello spirituale. Il primo tra questi è la pace interiore: il Signore la dà in modo molto diverso dal mondo. Essa infatti viene donata contestualmente a situazioni di tentazione o sofferenza o persecuzione, senza alcuna motivazione plausibile per la sua presenza, se non la pura grazia di Dio. Anzi, con l’andare del tempo questa pace si trasforma addirittura in gioia: “sono lieto nelle sofferenze che sopporto” (Col 1,24); “siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove” (1Pt 1,6); “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Questo sacerdozio regale è quindi qualcosa di sorprendentemente performante sul piano spirituale, di indispensabile quando ci troviamo nelle tentazioni, nelle prove. Dobbiamo quindi pregare con convinzione, per noi stessi e per la nostra Chiesa: venga il tuo regno!

8. Ritorniamo allora al testo di Ezechiele e sintetizziamo. Il testo ci presenta tre elementi:

I. La presenza di Dio, che va riconosciuta e accolta. A volte la diamo un po’ come per scontata, dal momento che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. “Vabbe’, Dio è presente. Dunque cosa bisogna fare?”. Invece la vita cristiana non è una concezione del mondo, non è un insieme di norme morali, ma è relazione con una persona dalla quale sappiamo di essere amati. Se questa relazione non alimenta la mia vita, non la incendia di passione, non la introduce in una visione che vede l’invisibile, rimango senza forze, indifferente, cieco.

II. Quando il Signore depone il profeta nella pianura piena di ossa, lo fa “passare accanto a esse da ogni parte” (Ez 37,2); ci vuole dunque la presa di coscienza accurata dello stato in cui ognuno di noi si trova. Questa presa di coscienza è guidata dalla presenza di Dio, che ci fa passare accanto alle ossa come per dire: “constata bene com’è lo stato delle cose, altrimenti non puoi capire la grandezza del mio intervento”. Nell’ordinario della vita della Chiesa questo accade con un processo di discernimento (Evangelii Gaudium, n. 30 e 50; in seguito EG 30.50) e questo processo vive del nutrimento continuo della Parola di Dio da parte dei singoli e della comunità. È solo la costante frequenza con la Parola di Dio che dà la giusta prospettiva per rendersi conto dell’effettiva situazione delle cose nello sguardo di Dio, altrimenti siamo troppo imbevuti dei criteri e delle categorie del mondo al punto di poterci sentir dire: “Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Se si vuole arrivare ad un discernimento che non sia semplicemente umano, ma a partire dalla Parola di Dio, è necessario abituarsi ad ascoltarla e meditarla quanto più spesso possibile, per far crescere nella comunità dei criteri comuni di riferimento che siano veramente evangelici.

III. Il coraggio di una fede da cui nasce la profezia. Bisogna profetizzare sulle ossa: ci vuole fede, tanta fede! La fede che vince l’evidenza esteriore della realtà, penetrandola nel profondo, la fede che fa confidare nell’azione di Dio più che nella propria, come insegna la Evangelii Gaudium: “la fede significa anche credere in Lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività” (EG 278).

Punto carta II

Sia santificato il tuo nome, liberaci dal male!

Siamo partiti dalla considerazione che siamo ossa inaridite e abbiamo bisogno dell’intervento di Dio. In realtà è Lui che ci ha portato a scoprirlo e l’ha fatto per un motivo ben preciso: “Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore – oracolo del Signore Dio –, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi” (Ez 36,23). Dunque lo scopo è l’evangelizzazione anche dei lontani, di coloro che non sono popolo di Dio. In realtà però sappiamo che la nostra santità sarà palese ai loro occhi solamente quando saremo definitivamente liberati dal male, e questo è riservato alla fine dei tempi. In ogni caso, perché Dio possa avviare questa evangelizzazione, abbiamo bisogno di profeti che con grande fede profetizzino alle ossa inaridite. I profeti non necessariamente hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, ma sono riconosciuti tali dal discernimento dei pastori, che hanno il compito di prendersi cura della porzione di Chiesa, corpo mistico di Cristo, loro affidata. Le prossime tappe sono dunque: incontrare Dio, prendere coscienza, aver fede.

2. Incontrare Dio

9. Arrivando in Diocesi, la prima esigenza che ho ravvisato è la necessità dell’incontro personale e comunitario con Dio. Scriveva Papa Benedetto XVI nella Deus Charitas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (DCE 1). Questo incontro non avviene una sola volta nella vita, ma dà origine ad una relazione stabile che ci accompagna sempre. Scrivevo:

«Forse,
Mai come in questo tempo dell’apparire,
Mai come in questo tempo della comunicazione facile,
Mai come in questo tempo dell’effimero,
Mai come in questo tempo della materialità,

l’uomo sente il richiamo del Mistero, della vera Relazione, dell’Eterno, del Trascendente. Questo nostro secolo sembra vuoto. E proprio nel tempo delle assenze è il momento di cercare una presenza. La Presenza. Quella da cui tutto deriva. Una buona ricerca comincia dal sapere dove cercare. Nel Vangelo troviamo quattro luoghi della presenza di Dio. In ciascuno di essi la presenza di Dio non è una scoperta intellettuale, ma un’esperienza. Spesso incomunicabile. D’altronde dall’inizio del ministero di Gesù i discepoli che gli chiedono “Maestro, dove abiti?” si sentono rispondere: “Venite e vedrete”. Dal momento che Dio è amore, questi quattro luoghi sono luoghi d’amore: l’Eucaristia (l’amore ricevuto), la comunità (l’amore condiviso), i poveri (l’amore donato), la preghiera (l’amore restituito)» [cfr. Ripartiamo da Dio, p. 1].

Eucaristia e sacramenti

10. Parlare dell’Eucaristia in termini di presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità è assolutamente vero, ma rischia di essere riduttivo. Per questo voglio che si capisca con chiarezza che l’Eucaristia, come luogo di presenza, non si riferisce ad uno spazio statico, ma ad una dinamica di azione che abbraccia la nostra vita, e diventa stile di vita. Infatti l’Eucaristia è la Vita stessa del Verbo che si è fatto carne per farci vivere la nostra vita in modo “totalmente altro”, al punto da affermare “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

11. Dicevamo prima dell’importanza di essere immersi nel mistero della redenzione: è la condizione per sfuggire alla duplice tentazione del riduzionismo sacramentale. Da una parte infatti rischiamo di ridurre i sacramenti ad un’occasione per vivificare il nostro impegno nella vita cristiana, ma 

svuotandoli dell’azione di Dio, in una sorta di pelagianesimo (Il pelagianesimo è un’eresia, combattuta particolarmente da S. Agostino, per la quale l’uomo era in grado di salvarsi con le sue sole forze, senza bisogno della grazia); dall’altra rischiamo di vederli come qualcosa di magico, che funziona comunque, con la pretesa di ottenere miracolisticamente dei risultati, senza entrare invece nella dinamica che l’atto sacramentale implica e per la quale è richiesta una mia collaborazione determinata e viva.

12. Da questo punto di vista la meditazione dell’Apocalisse ci ha fatto capire come il disegno di Dio si realizzi nella storia attraverso le liturgie celesti. Sia ben chiaro: non si tratta quindi di fare delle grandi celebrazioni e andrà tutto a posto (tentazione magica), né di dire “beh, noi rimbocchiamoci le maniche…” (tentazione pelagiana); si tratta piuttosto di rendere grazie per il fatto che l’Agnello è stato immolato e ci ha associati al suo atto redentivo. Egli fa di noi non soltanto dei salvati passivi, ma anche dei salvati attivi, compartecipi della missione di Cristo, in quanto compartecipi del suo sacerdozio mediante il Battesimo e la Cresima: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

13. I sacramenti che imprimono il carattere modificano la nostra anima (e quindi la nostra forma) in ordine alla salvezza (Battesimo), alla testimonianza (Cresima) e alla comunità (Ordine). Questa modificazione porta con sé una differente partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo.

14. Ci sono poi due sacramenti che accompagnano l’uomo nella quotidianità del suo cammino: l’Eucaristia e la Riconciliazione. L’Eucaristia è il sacramento che inserisce la vita quotidiana del fedele nella dinamica di offerta amorosa “con Cristo, per Cristo e in Cristo”. È proprio nella dossologia, alla fine della preghiera eucaristica, quando il celebrante innalza il calice e la patena nel gesto tipicamente sacerdotale dell’offerta a Dio, che il fedele laico unisce tutto se stesso e la concretezza della sua vita all’offerta di Cristo stesso. L’Amen che pronuncia è il più importante della Messa. Così l’Eucaristia, nella sua essenza profondamente redentiva, fa sì che tutto ciò che viene offerto, ciò per cui sto dando la vita, sia redento dalla sua pochezza e acquisisca un senso eterno e una forza trasfigurante (non nell’aspetto, ma nel valore intrinseco di ciò che viene trasfigurato). Desidero qui citare Steven Weinberg (1933-2021), uno scienziato statunitense Premio Nobel per la fisica nel 1979. Nel saggio “I primi tre minuti” racconta l’inizio della storia dell’universo. Non posso dimenticare lo sgomento che mi diede leggere il capitolo finale in cui affermava: “Lo sforzo di capire l’universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità di una tragedia”. Era ateo. L’Eucaristia la si capisce meglio quando si confronta lo sguardo sull’universo di un ateo con lo sguardo eucaristico, che già etimologicamente la dice tutta: è un rendimento di grazie.

15. La Riconciliazione è il sacramento istituito da Gesù il giorno di Pasqua, che serve per ricostituire il nostro stato di risorti danneggiato dal peccato. Infatti la risurrezione di Cristo “non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo” (EG 276).

16. C’è poi il sacramento del Matrimonio: esso è in coppia con il sacramento dell’Ordine, in quanto sono sacramenti a servizio della comunità. L’Ordine per la Chiesa e il matrimonio per la comunità familiare, piccola Chiesa. Bisognerebbe vivificarne soprattutto la dimensione dei riti familiari, ovvero che vedono la famiglia riunita insieme: sia per la preghiera, sia per la benedizione della mensa, sia per la lettura della Parola di Dio. Questi elementi sono spesso assenti dalle nostre famiglie cattoliche ed andrebbero ripresi: lo scollamento tra la fede vissuta in famiglia e la fede vissuta nella comunità parrocchiale o elettiva nuoce gravemente all’educazione e allo sviluppo dei nuovi cristiani che si trovano nelle famiglie.

17. Infine il sacramento dell’Unzione degli Infermi, che dovrebbe essere espressione di una comunità che si fa vicina con la preghiera alle persone in difficoltà di salute e a quelle prossime alla morte. Pensiamo a cosa abbiamo perso rispetto ai tempi in cui, quando si suonava l’agonia mentre il prete andava ad impartire questo sacramento, la comunità si raccoglieva in preghiera.

Punto carta III

Dacci oggi il nostro pane soprasostanziale!

Abbiamo riflettuto sulla Liturgia ovvero su “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo” (SC 7). L’Eucaristia scandisce la vita ordinaria del cristiano. Quando S. Girolamo ha tradotto la Bibbia in latino, costituendo la Volgata, ha trovato un problema di traduzione proprio nel Padre nostro. In esso, infatti c’è una parola che ricorre tre volte in tutta la letteratura greca: una nel Padre nostro di Matteo, una in quello di Luca, una nella Didaché, un testo di fine I sec. – inizio II sec., laddove riporta il testo del Padre nostro. Quindi è unica. 

Nella traduzione del Vangelo secondo Matteo S. Girolamo ha optato per tradurre letteralmente le due componenti della sconosciuta parola greca ed è venuto fuori un neologismo: supersubstantialem, che in italiano suona soprasostanziale. I padri dei primi secoli hanno visto nella quarta domanda del Padre nostro un’allusione al cibo eucaristico, il pane del cielo. In ogni caso le comunità cristiane degli inizi erano fortemente centrate sulla celebrazione dell’Eucaristia, che non era semplicemente un rito, ma il fulcro di tutta la spiritualità cristiana. La vita che si svolgeva nella quotidianità e nella profanità della società, trovava nella celebrazione liturgica non soltanto una chiave di lettura – il senso – ma anche l’energia necessaria per procedere. Noi dobbiamo tornare a fare dell’Eucaristia il centro e il motore della vita della comunità e quindi della vita cristiana. Proseguiamo quindi con la comunità.

Comunità

18. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20). La ragione della comunità cristiana non è semplicemente organizzativa o motivante, ma fondante: l’Apocalisse mette chiaramente in luce l’importanza e la forza della comunità; la storia stessa è diretta verso le nozze tra l’Agnello e la Sua Sposa, che è la Gerusalemme celeste, ovvero la Chiesa. D’altronde l’Eucaristia stessa, che accompagna e struttura la vita del cristiano, giunge al suo culmine quando si vive il momento della comunione con il Padre in Cristo: al fedele viene presentata dal ministro la particola consacrata con le parole “il Corpo di Cristo” e il fedele risponde: “Amen”. Gli viene presentato il Corpo di Cristo per divenire più pienamente corpo di Cristo che è la Chiesa. L’Eucaristia infatti struttura la Chiesa che deriva da essa (Ecclesia de Eucharistia). La Chiesa è uno dei misteri più difficili da capire: è il laboratorio della vita cristiana, il luogo dove si fa l’esperienza della più profonda limitatezza e povertà della nostra condizione di uomini e, nello stesso tempo, quello in cui si vede più chiaramente che nei nostri vasi di creta abbiamo un tesoro, la cui straordinaria potenza non può che venire da Dio e non da noi (cfr 2Cor 4,7). Dopo l’ascensione al cielo del Signore Gesù e la Pentecoste, la persona della Trinità di cui si fa più immediata esperienza è lo Spirito Santo, il cui luogo ordinario di presenza è la Chiesa: lo Spirito si manifesta nella Chiesa riunita a Pentecoste (At 2,3-4) e lo si ritrova alla fine della Bibbia in stretta interazione con la Chiesa: “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!»” (Ap 22,17).

19. Affinché possiamo vivere veramente come figli di Dio, dobbiamo essere guidati dallo Spirito di Dio: “Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14). Perciò abbiamo bisogno del dono dello Spirito che avviene nei sacramenti e si manifesta e dispiega nella vita della Chiesa. Papa Francesco ne fa un punto determinante per l’identificazione della Chiesa stessa, la sua frase “non c’è lo Spirito” è il sigillo della non ecclesialità di un’attività o di una risoluzione che si dovrebbe supporre ecclesiale (18 citazioni ufficiali sul sito vatican.va). Abbiamo cercato di mettere a fuoco quali sono le condizioni per cui un’esperienza è veramente ecclesiale fin dal 2016 (Misericordiosi come il Padre, p. 12-14); nel 2017 abbiamo vissuto l’esperienza di un paio di giorni a Nomadelfia con i responsabili dei movimenti ecclesiali, narrata in Adoro te (p. 4) e sistematizzata nelle quattro perseveranze (Adoro te p. 5-6); le quattro perseveranze sono state proposte nella lettera pastorale seguente (Un solo corpo, p. 19-20). Il 25 novembre 2020 nell’Udienza Generale il S. Padre ha fatto una catechesi online nella quale ha sviscerato il testo di At 2,42 mettendo in luce le quattro coordinate – così le ha chiamate – per cui si può dire che un’esperienza è ecclesiale (Sarete per me un regno di sacerdoti, p. 20).

20. Che cosa abbiamo imparato in questi anni? A livello diocesano un’esperienza forte e convincente è stato il Consiglio Diocesano Permanente che sta trovando una sua fisionomia come comunità: l’insegnamento è che a capo di una comunità vasta come la Diocesi, ma lo stesso – fatte le debite proporzioni – vale per l’unità pastorale, non ci deve essere un uomo solo con alcune persone che gli danno consigli, ma una comunità guidata da un pastore. Dicevamo infatti che una parrocchia è caratterizzata da diversi livelli di adesione, ma che è opportuno che al centro di essa ci sia una vera e propria comunità cristiana che è perseverante nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere (cfr Misericordiosi come il Padre, p. 13). È attraverso la comunità che prega sulla Parola di Dio e ne fa oggetto di riflessione e condivisione comunitaria che si formano quei criteri evangelici di giudizio condivisi che saranno alla base delle scelte del pastore della Chiesa. È attraverso la comunità che vive la comunione che si crea quell’unità che diventa esemplare e contagiosa per la Chiesa. È solo attraverso una comunità che celebra l’Eucaristia che si capisce il ruolo che essa ha nella costruzione della Chiesa e lo si trasmette con la testimonianza e l’insegnamento. È solo attraverso una comunità che ha dei momenti di preghiera che fiorisce nella Chiesa l’amore alla preghiera e i frutti di grazia che ne conseguono. È solo attraverso un’esperienza (al presente!) di comunità che è possibile per un pastore guidare la Chiesa.

21. La vita pastorale della nostra Diocesi sarà scandita cronologicamente dall’anno liturgico, per cui, da quest’anno, l’anno pastorale inizierà con la prima Domenica di Avvento. Questo consentirà alle nostre comunità di incanalare meglio la potenza della liturgia nella vita quotidiana.

Poveri

22. L’attenzione e il servizio ai poveri sono anch’essi un modo di incontrare il Signore, come ci ha insegnato innanzitutto Gesù: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). L’impegno a continuare la mensa dei poveri, dopo la chiusura del Convento dei Cappuccini, sarà una grande opportunità di entrare maggiormente in contatto con i poveri. Papa Francesco scrive che “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo” (EG 24) e ancora: “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo” (EG 270). Il fatto di dover assumere la gestione della mensa che per anni i frati Cappuccini hanno tenuto (e cogliamo questa occasione per ringraziarli ancora di questo prezioso servizio), potrebbe essere visto come un problema, mentre in realtà è un’occasione per le nostre comunità di fare un servizio in un orario che forse è maggiormente alla portata delle nostre possibilità e ci consente di mettere in pratica le parole provocanti dell’Evangelii gaudium riguardanti i poveri.

Preghiera

23. Forse la preghiera, per la sua facilità di realizzazione (non ha nemmeno bisogno di un sacerdote) è il termometro più immediato del calore spirituale di un singolo o di una comunità: come la parola è il modo più spontaneo di intrattenere una relazione con una persona, così la preghiera nei confronti di Dio. Egli ci parla con la sua Parola scritta e con quella rivolta direttamente al nostro cuore, noi gli parliamo aprendogli il nostro cuore. Come ha detto Papa Francesco nell’udienza generale del 25 novembre 2020, “I primi passi della Chiesa nel mondo sono stati scanditi dalla preghiera. Gli scritti apostolici e la grande narrazione degli Atti degli Apostoli ci restituiscono l’immagine di una Chiesa in cammino, una Chiesa operosa, che però trova nelle riunioni di preghiera la base e l’impulso per l’azione missionaria”. Non possiamo dimenticare questo insegnamento: dobbiamo invece porlo alla base della vita di ciascuna delle nostre comunità, parrocchiali, diocesane, elettive.

3. La presa di coscienza 

24. Quanto è difficile e faticoso prendere coscienza dei nostri limiti! Ci chiede uno sguardo distaccato da noi stessi e da ciò a cui siamo abituati, ma nello stesso tempo disarmato e indifeso. Ci chiede di lasciarci guidare da Dio, come abbiamo visto in Ez 37, perché è la Sua Parola che ci dà la vera misura del nostro essere. Dobbiamo essere disposti a farci misurare, piuttosto che a misurare. Questa operazione l’abbiamo fatta insieme quando ci siamo concentrati sulle sette lettere agli angeli delle Chiese nella prima sezione dell’Apocalisse. Gli angeli sono coloro che devono trasmettere il messaggio (angélion) alle Chiese: il buon messaggio (euangélion).

25. Tra tutte le lettere dei capitoli 2 e 3 dell’Apocalisse ci sono ovviamente diverse immagini che si adattano alla nostra situazione, tuttavia quella all’angelo della Chiesa di Laodicèa mi pare la più pertinente:

14All’angelo della Chiesa che è a Laodicèa scrivi:

“Così parla l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio. 15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista. 19Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convèrtiti. 20Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. 21Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono. 22Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”

26. Certamente l’immagine è un po’ forte, soprattutto riguardo all’atto di vomitare. Tuttavia, quante volte mi è capitato di sentirmi dire dai fedeli: “Sa, noi siamo un po’ grigi, come i colori della nostra squadra…”. A questo riferimento di tipo calcistico dobbiamo aggiungere un’aggravante tipica del nostro mondo occidentale, il vero grande problema: la ricchezza. “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17). Del resto Gesù ci ha messo in guardia in modo molto esplicito: “Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,24-25). Cresciuto in un mondo in cui il problema sembrava essere la povertà, ho faticato a cogliere la profondità di questo insegnamento. Credevo che riguardasse i ricchi ingiusti, finché, con lo scorrere dei decenni, mi sono reso conto di quanto potere abbia la ricchezza sull’uomo: lo rende come impermeabile, indifferente a Dio. Nei migliori dei casi lo rallenta nella sua attitudine al bene, per cui fa con molta fatica quello che farebbe in modo immediato, se fosse povero. Ovviamente non si sta parlando della beneficenza, ma della disponibilità a lasciarsi trasformare interiormente. Se guardiamo alla nostra storia possiamo dire con sicurezza che i tempi in cui la nostra società era più povera erano caratterizzati da una Chiesa che ancora raggiungeva tutti. Non sono in grado di affermare con inferenze sociologiche che la ricchezza generi apatia spirituale, tuttavia constato che i cosiddetti paesi ricchi tendono a soffrire di questa apatia, diversamente dai paesi poveri in cui è più facile vedere una Chiesa coinvolta a livello popolare. Ricordo ancora oggi la prima volta in cui un giovane mi disse apertis verbis “francamente non ho bisogno di Dio: la mia vita va avanti bene così. Poi se strada facendo le cose cambieranno, valuterò il da farsi”. Rimasi sgomento, mi sentii disarmato, impossibilitato ad intervenire. Ed è una sensazione che, in campo educativo, ho provato più volte: si arriva ad un punto in cui non viene avvertita l’esigenza, l’importanza di Dio in questo mondo. Se Dio c’è, può essere un optional? E, di conseguenza, il Vangelo è per quelli che hanno problemi? Ma è Dio stesso a rispondere a queste domande: “non sai di essere un infelice”. 

27. Qual è il problema della Chiesa di Laodicèa? Non è uno, sono tre: 1. La finta ricchezza: la vera ricchezza, quella dell’oro purificato nel crogiuolo, è la fede che è “messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco” (1Pt 1,7). 2. La nudità del suo essere, che non si copre con abiti ricercati, ma con l’abito bianco della risurrezione, la vita nuova che è l’unica in grado di coprire la vergognosa nudità. 3. L’incapacità a vedere, che richiede un “collirio” che rende capaci di recuperare la vista, ovvero di vedere la reale consistenza di questo mondo. Tuttavia in questo quadro desolante le promesse che vengono fatte a chi accetta di convertirsi sono
veramente bellissime: Dio che sta alla porta e bussa e vuole cenare con me; la possibilità di sedere sullo stesso trono di Gesù che a sua volta siede sullo stesso trono del Padre.

Punto carta IV

Sia fatta la tua volontà, rimetti a noi i nostri debiti 

Quando prendiamo coscienza del nostro stato carente siamo di fronte a due atteggiamenti da tenere: uno è che cambiare richiede di essere disposti a far sì che la volontà di Dio sia fatta non solo in cielo, ma anche nella concretezza della nostra vita; l’altro che non si cambia se non ricevendo un perdono e perdonando a nostra volta. Il motore dell’universo è la redenzione che Gesù Cristo ha operato nella nostra vita: essa è consistita in un grande atto di perdono. A questo punto il nostro cammino chiede il grande passo della fede.

Comunità

18. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20). La ragione della comunità cristiana non è semplicemente organizzativa o motivante, ma fondante: l’Apocalisse mette chiaramente in luce l’importanza e la forza della comunità; la storia stessa è diretta verso le nozze tra l’Agnello e la Sua Sposa, che è la Gerusalemme celeste, ovvero la Chiesa. D’altronde l’Eucaristia stessa, che accompagna e struttura la vita del cristiano, giunge al suo culmine quando si vive il momento della comunione con il Padre in Cristo: al fedele viene presentata dal ministro la particola consacrata con le parole “il Corpo di Cristo” e il fedele risponde: “Amen”. Gli viene presentato il Corpo di Cristo per divenire più pienamente corpo di Cristo che è la Chiesa. L’Eucaristia infatti struttura la Chiesa che deriva da essa (Ecclesia de Eucharistia). La Chiesa è uno dei misteri più difficili da capire: è il laboratorio della vita cristiana, il luogo dove si fa l’esperienza della più profonda limitatezza e povertà della nostra condizione di uomini e, nello stesso tempo, quello in cui si vede più chiaramente che nei nostri vasi di creta abbiamo un tesoro, la cui straordinaria potenza non può che venire da Dio e non da noi (cfr 2Cor 4,7). Dopo l’ascensione al cielo del Signore Gesù e la Pentecoste, la persona della Trinità di cui si fa più immediata esperienza è lo Spirito Santo, il cui luogo ordinario di presenza è la Chiesa: lo Spirito si manifesta nella Chiesa riunita a Pentecoste (At 2,3-4) e lo si ritrova alla fine della Bibbia in stretta interazione con la Chiesa: “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!»” (Ap 22,17).

19. Affinché possiamo vivere veramente come figli di Dio, dobbiamo essere guidati dallo Spirito di Dio: “Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14). Perciò abbiamo bisogno del dono dello Spirito che avviene nei sacramenti e si manifesta e dispiega nella vita della Chiesa. Papa Francesco ne fa un punto determinante per l’identificazione della Chiesa stessa, la sua frase “non c’è lo Spirito” è il sigillo della non ecclesialità di un’attività o di una risoluzione che si dovrebbe supporre ecclesiale (18 citazioni ufficiali sul sito vatican.va). Abbiamo cercato di mettere a fuoco quali sono le condizioni per cui un’esperienza è veramente ecclesiale fin dal 2016 (Misericordiosi come il Padre, p. 12-14); nel 2017 abbiamo vissuto l’esperienza di un paio di giorni a Nomadelfia con i responsabili dei movimenti ecclesiali, narrata in Adoro te (p. 4) e sistematizzata nelle quattro perseveranze (Adoro te p. 5-6); le quattro perseveranze sono state proposte nella lettera pastorale seguente (Un solo corpo, p. 19-20). Il 25 novembre 2020 nell’Udienza Generale il S. Padre ha fatto una catechesi online nella quale ha sviscerato il testo di At 2,42 mettendo in luce le quattro coordinate – così le ha chiamate – per cui si può dire che un’esperienza è ecclesiale (Sarete per me un regno di sacerdoti, p. 20).

20. Che cosa abbiamo imparato in questi anni? A livello diocesano un’esperienza forte e convincente è stato il Consiglio Diocesano Permanente che sta trovando una sua fisionomia come comunità: l’insegnamento è che a capo di una comunità vasta come la Diocesi, ma lo stesso – fatte le debite proporzioni – vale per l’unità pastorale, non ci deve essere un uomo solo con alcune persone che gli danno consigli, ma una comunità guidata da un pastore. Dicevamo infatti che una parrocchia è caratterizzata da diversi livelli di adesione, ma che è opportuno che al centro di essa ci sia una vera e propria comunità cristiana che è perseverante nell’insegnamento degli apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere (cfr Misericordiosi come il Padre, p. 13). È attraverso la comunità che prega sulla Parola di Dio e ne fa oggetto di riflessione e condivisione comunitaria che si formano quei criteri evangelici di giudizio condivisi che saranno alla base delle scelte del pastore della Chiesa. È attraverso la comunità che vive la comunione che si crea quell’unità che diventa esemplare e contagiosa per la Chiesa. È solo attraverso una comunità che celebra l’Eucaristia che si capisce il ruolo che essa ha nella costruzione della Chiesa e lo si trasmette con la testimonianza e l’insegnamento. È solo attraverso una comunità che ha dei momenti di preghiera che fiorisce nella Chiesa l’amore alla preghiera e i frutti di grazia che ne conseguono. È solo attraverso un’esperienza (al presente!) di comunità che è possibile per un pastore guidare la Chiesa.

21. La vita pastorale della nostra Diocesi sarà scandita cronologicamente dall’anno liturgico, per cui, da quest’anno, l’anno pastorale inizierà con la prima Domenica di Avvento. Questo consentirà alle nostre comunità di incanalare meglio la potenza della liturgia nella vita quotidiana.

Poveri

22. L’attenzione e il servizio ai poveri sono anch’essi un modo di incontrare il Signore, come ci ha insegnato innanzitutto Gesù: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). L’impegno a continuare la mensa dei poveri, dopo la chiusura del Convento dei Cappuccini, sarà una grande opportunità di entrare maggiormente in contatto con i poveri. Papa Francesco scrive che “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo” (EG 24) e ancora: “A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo” (EG 270). Il fatto di dover assumere la gestione della mensa che per anni i frati Cappuccini hanno tenuto (e cogliamo questa occasione per ringraziarli ancora di questo prezioso servizio), potrebbe essere visto come un problema, mentre in realtà è un’occasione per le nostre comunità di fare un servizio in un orario che forse è maggiormente alla portata delle nostre possibilità e ci consente di mettere in pratica le parole provocanti dell’Evangelii gaudium riguardanti i poveri.

Preghiera

23. Forse la preghiera, per la sua facilità di realizzazione (non ha nemmeno bisogno di un sacerdote) è il termometro più immediato del calore spirituale di un singolo o di una comunità: come la parola è il modo più spontaneo di intrattenere una relazione con una persona, così la preghiera nei confronti di Dio. Egli ci parla con la sua Parola scritta e con quella rivolta direttamente al nostro cuore, noi gli parliamo aprendogli il nostro cuore. Come ha detto Papa Francesco nell’udienza generale del 25 novembre 2020, “I primi passi della Chiesa nel mondo sono stati scanditi dalla preghiera. Gli scritti apostolici e la grande narrazione degli Atti degli Apostoli ci restituiscono l’immagine di una Chiesa in cammino, una Chiesa operosa, che però trova nelle riunioni di preghiera la base e l’impulso per l’azione missionaria”. Non possiamo dimenticare questo insegnamento: dobbiamo invece porlo alla base della vita di ciascuna delle nostre comunità, parrocchiali, diocesane, elettive.

4. La fede

28. Nei confronti della fede, abbiamo sempre un po’ di imbarazzo. Esso viene da due cose: la prima è che la fede è uno di quei concetti fondamentali che tutti pensiamo di conoscere, ma di cui facciamo fatica a parlare proprio perché non ci è chiaro. S. Agostino si esprime in modo analogo nei confronti del concetto di tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so” (Confessioni XI, 14). Il secondo motivo di imbarazzo è che la fede è un tema molto sensibile, sul quale facilmente ci sentiamo giudicati. Non posso dimenticare il mio padre spirituale, Don Franco, che diceva sempre: “Non dire: «Devo avere più fede», di’: «Devo avere fede»”. D’altronde anche Gesù aveva risposto in modo analogo agli apostoli che chiedevano “Signore, accresci in noi la fede!”: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6). Come dire: “Non è questione di accrescere: non ne avete, perché se fosse solo quanto un granello di senape, potreste far trapiantare i gelsi in mare”.

29. D’altronde “Il giusto”, cioè il santo, “vivrà per la sua fede” (Ab 2,4; citato in Rm 1,17). La fede ha due aspetti: la fides quæ creditur, la fede che viene creduta, e la fides qua creditur, la fede con la quale si crede. La prima è quella degli articoli di fede: in cosa crediamo? Credere in qualcosa di erroneo porta a conseguenze fatali e a non trovare quel tesoro nel campo che è la ragione della nostra vita di fede, perché il tesoro non è in ogni campo, ma in un campo ben preciso e indirizzare a cercare in un campo in cui non c’è il tesoro vuol dire indirizzare una vita alla frustrazione (e doverne rispondere davanti a Dio). Per questo veniamo esortati: “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo” (Col 2,8). Nello stesso tempo la Tradizione non è un fisso canone da mantenere ma, come ci dice la Dei Verbum: “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (DV 8). Dentro questo bellissimo testo conciliare ci siamo tutti noi, Chiesa Alessandrina di oggi, in questa avventura che sempre più ci lancia dentro il mistero vivo di Cristo.

30. Il secondo aspetto della fede è la fede con la quale si crede, ossia la forza con la quale aderiamo al mistero che ci è rivelato. Se il primo aspetto della fede ha una forte componente intellettiva, il secondo è decisamente più esistenziale: è quello che mi mette in gioco, che mi fa rischiare la vita puntandola su Dio. Questa dipende dall’intensità dell’incontro con Dio (ne abbiamo parlato prima) e di conseguenza anche da quanto Dio si sia rivelato alla persona, ma dipende anche dalla libertà della nostra adesione. Chiediamo al Signore il dono della fedeltà e della perseveranza.

Punto carta IV

Sia fatta la tua volontà, rimetti a noi i nostri debiti 

Quando prendiamo coscienza del nostro stato carente siamo di fronte a due atteggiamenti da tenere: uno è che cambiare richiede di essere disposti a far sì che la volontà di Dio sia fatta non solo in cielo, ma anche nella concretezza della nostra vita; l’altro che non si cambia se non ricevendo un perdono e perdonando a nostra volta. Il motore dell’universo è la redenzione che Gesù Cristo ha operato nella nostra vita: essa è consistita in un grande atto di perdono. A questo punto il nostro cammino chiede il grande passo della fede.

Parte Seconda – Alcune sfide concrete

1. Le unità pastorali

31. Quest’anno segna l’inizio del nostro cammino per impiantare le unità pastorali nella nostra Diocesi. È un cammino che ha una storia, è sinodale, è lungo. Richiederà impegno, spirito pionieristico, pazienza e flessibilità.

La storia delle unità pastorali nella nostra Diocesi 

32. Appena iniziato il mio ministero pastorale il 25 novembre del 2012 e dopo aver costituito gli organismi di consultazione, cominciammo molto presto a parlare dell’assetto delle parrocchie. Infatti era già palese che, di fronte all’uscita dal ministero attivo dei sacerdoti più anziani, non c’erano sacerdoti a sufficienza per sostituirli e si rendeva necessario assegnare più parrocchie ad un solo sacerdote. Da qui la necessità di cominciare a progettare un assetto della Diocesi che prevedesse la situazione “fra venti o trent’anni”. La cartina della Diocesi che ne è scaturita è rimasta sul tavolo del nostro Consiglio Diocesano Permanente come strumento stabile di viaggio. Lo scopo era quello di avere un’idea chiara sui raggruppamenti delle parrocchie, per operare gli spostamenti dei preti nel modo più razionale possibile, limitando al massimo il numero di traslochi. Si è cominciato da subito a parlare della possibilità della cooperazione di più sacerdoti sul territorio, ma soltanto come evento futuro e di fatto si è realizzato poche volte prima di quest’anno.

33. Col passare degli anni ci siamo resi conto che il progetto teorico non teneva conto di bisogni o difficoltà di sacerdoti che non potevano assumersi il peso di più parrocchie: c’erano inoltre da considerare tutti gli altri incarichi che si aggiungevano a quelli parrocchiali, cosicché ci siamo ritrovati con largo anticipo a completare il nostro schema di accorpamento. Che cosa abbiamo imparato? Innanzitutto alcuni criteri per accorpare le parrocchie: 1. Omogeneità: per quanto possibile, bisogna che le parrocchie siano omogenee; tuttavia questo criterio è sottoposto a quello seguente; 2. Organicità: l’unità pastorale deve essere una comunità, ovvero un corpo con una sua completezza, perciò bisogna che le parrocchie che lavorano insieme siano in numero tale da poter provvedere ai servizi di cui necessita la comunità cristiana; tra questi la generatività (iniziazione cristiana e pastorale giovanile, di gran lunga la più difficile oggi) e la cura dei più deboli, degli indifesi (i piccoli, gli anziani e i poveri); 3. Continuità: bisogna fare in modo che un’unità pastorale abbia una continuità di servizio pastorale; per questo, affidare la cura pastorale di una comunità ad un solo sacerdote è pregiudicante per la vita di una comunità, in quanto all’invecchiamento del presbitero corrisponde facilmente un invecchiamento anche della comunità che può portarla a morire. 4. Massa critica: per fare una comunità ci vogliono le persone e i loro carismi. Un dato su cui non si è riflettuto abbastanza è che, negli ultimi cinquant’anni circa, il più grosso deficit della Chiesa alessandrina non è stato quello dei preti (-70% circa), ma quello dei laici (-80%  circa). Di solito si descrive la crisi in modo molto sbrigativo: mancano vocazioni (non mancano vocazioni! Quelle ci sono: mancano risposte alle vocazioni); in realtà la mancanza più grande è stata quella dei laici. E con essi i loro carismi a servizio della comunità.

Un cammino sinodale

34. Il nostro cammino vedrà innanzitutto la costituzione giuridica delle Unità Pastorali: i parroci daranno le dimissioni dal loro attuale incarico e saranno nominati parroci di tutte le parrocchie dell’Unità Pastorale (d’ora in avanti: UP). La durata di tutte le nomine a parroco sarà di 9 anni. Fra di essi uno per UP sarà nominato moderatore ed avrà il compito della rappresentanza legale delle parrocchie. Vorrei però chiarire che il moderatore non avrà il ruolo di parroco, con gli altri che faranno da vice parroci, e neppure sarà il coordinatore funzionale di una suddivisione dell’UP in gruppi di parrocchie. Dovrà invece presiedere gli incontri dei parroci in modo da svolgere un’azione pastorale comune sul territorio, cosicché  tutto si faccia nella maggiore concordia possibile. I parroci daranno le dimissioni a 75 anni, secondo le indicazioni del Codice di Diritto Canonico (can. 538 §3). I parroci che vengono nominati dopo i 75 anni svolgeranno il ministero ad nutum episcopi, vista la necessità di rassegnare le dimissioni dopo i 75 anni. Ogni parrocchia dovrà avere l’alternanza di due parroci per le celebrazioni delle Messe domenicali, solo uno dei quali potrà avere più di 70 anni.

35. La conduzione pastorale dell’UP va svolta a stretto contatto con i laici, in una forma tipicamente sinodale. L’idea è che ogni UP sia in grado di avere in sé le risorse per svolgere ogni genere di attività di cui la comunità abbisogna, mettendo insieme energie e carismi. Laddove le attività risultassero troppo grandi per essere gestite unitariamente, si potranno decentrare su più sedi nel territorio. Secondo l’adagio “il pesce puzza dalla testa”, è importante che la conduzione pastorale dell’UP sia effettuata non da esperti o consiglieri, o da pastori per conto loro, ma in una dinamica di vita di comunità caratterizzata dalle quattro coordinate dell’ecclesialità. Dunque al centro della vita dell’UP, che sarà segnata dalla presenza di tante persone con tanti diversi livelli di adesione, dev’esserci una comunità vera e propria.

36. Al fine di aiutarsi a vicenda, ogni UP avrà un gruppo di quattro laici con il moderatore che parteciperà al Laboratorio di Fraternità. Esso è una comunità tra rappresentanti di UP che si riunisce sotto la guida del Vescovo, anch’essa in forma sinodale. Lo scopo è fornire alle UP – e sperimentare in anteprima – una sorta di percorso comune e anche di condividere gli insuccessi (per evitarli) e i successi (per riproporli altrove) che si incontrano nelle singole UP.

Un cammino lungo

37. Iniziamo questo cammino adesso, ma sappiamo solamente che sarà un processo lungo: lo compiamo senza farci catturare da programmi preconfezionati, ascoltando che cosa lo Spirito dice alla nostra Chiesa (cfr Ap 2,7). A ciascun giorno basta la sua pena: oggi facciamo i passi di oggi. Domani lo vedremo domani. È lo stile di Gesù: “Venite e vedrete” (Gv 1,39). Sarebbe stato così facile rispondere alla domanda “Maestro, dove dimori?” (Gv 1,38) con un “a Cafarnao”. Poi sarebbero venute altre parole e ci si sarebbe raccontati. Ma Gesù dà al cammino la preminenza sulle parole: “Venite e vedrete”. Come già dissi l’anno scorso, il Sinodo non è una questione di parole, ma di strada da fare. Non facciamoci scoraggiare da quanto lungo possa essere il cammino che abbiamo intrapreso, ma facciamo oggi i passi di oggi.

38. Il cammino è lungo perché è un cammino di evangelizzazione: essa dura fin dalla venuta di Cristo nel mondo e coinvolge ogni cristiano: “La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. […] nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione” (EG 120). Non si tratta innanzitutto di qualcosa da fare: si tratta di essere dei battezzati, ovvero dei figli di Dio, ovvero delle persone guidate dallo Spirito di Dio (cfr Rm 8,14). Si tratta quindi di lasciarsi guidare dallo Spirito e ci troveremo necessariamente ad evangelizzare, perché l’evangelizzazione altro non è che trasmettere una gioia, la grande gioia: la gioia del Vangelo (in latino Evangelii gaudium). A questo scopo ogni battezzato è adatto a vivere almeno la forma dell’intercessione per gli altri: “C’è una forma di preghiera che ci stimola particolarmente a spenderci nell’evangelizzazione e ci motiva a cercare il bene degli altri: è l’intercessione. Osserviamo per un momento l’interiorità di un grande evangelizzatore come San Paolo, per cogliere come era la sua preghiera. Tale preghiera era ricolma di persone: «Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia […] perché vi porto nel cuore» (Fil 1,4.7)” (EG 281). All’interno dell’UP tutti sono coinvolti nell’edificazione della comunità: questo avviene sia attraverso azioni dirette, che attraverso la preghiera di intercessione. Si costituiscano perciò gruppi di persone che svolgano questo ministero a beneficio dell’UP e sperimenteremo che avrà una fecondità particolare.

39. Certamente ci vorrà impegno: nulla di importante nasce senza impegno. Ci vorrà spirito pionieristico: dovremo avere una fantasia creativa (cfr EG 33) perché nessuno di noi è stato formato adeguatamente a questo genere di servizio pastorale. Ci vorrà tanta pazienza perché gli intoppi, le fatiche e le difficoltà non mancheranno. Ci vorrà flessibilità per adattarci a ciò che lo Spirito ci chiama a fare.

2. L’iniziazione cristiana

40. Vogliamo che la comunità cristiana si prenda carico del cammino di iniziazione cristiana. In questo senso faremo un cammino di organizzazione e di formazione dei singoli catechisti e delle comunità. L’organizzazione è al fine di razionalizzare le forze per offrire un percorso di iniziazione cristiana che lasci un bel ricordo nei giovani e li porti all’incontro con il Signore. La formazione sarà principalmente in ordine a far sì che l’evangelizzazione non sia appaltare un compito ad un gruppo di esperti, ma piuttosto un’emanazione dell’anelito evangelizzatore della comunità. Questo con gradualità, senza fretta.

41. Certamente per raggiungere questo scopo andrà recuperato il sapore della personale iniziazione cristiana di ciascun membro della comunità. Rileggendo i testi patristici mi sono reso conto di quanto abbiamo perduto riguardo al senso del Battesimo in relazione alla vita quotidiana vissuta. In modo particolare il passaggio dalla celebrazione per immersione a quella per aspersione, con l’andare dei secoli, ci ha fatto dimenticare nozioni della dottrina battesimale che conferiscono uno sguardo completamente diverso alla vita. Avendo già ricevuto tali sacramenti, vogliamo “riappropriarcene” approfondendone il senso. Questo aiuterà le nostre comunità a ricentrarsi sull’essenziale e ad essere più appassionatamente evangelizzatrici. 

3. I giovani 

42. In questo contesto di rinnovamento pastorale, la concomitanza della Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona dall’1 al 6 agosto 2023, con il gemellaggio dal 25 al 31 luglio a Coimbra, offre un’importante occasione di ripartenza della pastorale giovanile nelle nostre unità pastorali. Il suggerimento è di individuare un’equipe di educatori a livello di UP e cercare di facilitare il più possibile la partecipazione dei giovani delle comunità alla Giornata Mondiale della Gioventù: la pastorale giovanile ha bisogno di eventi coinvolgenti che la lancino affinché la cura pastorale ordinaria possa avere un primo impulso e una vera efficacia.

4. Il Seminario

43. Il nostro Seminario Diocesano si trasferirà al Convento dei Cappuccini. Il S. Padre, giusto al Simposio del 17 febbraio di quest’anno, ha parlato della formazione dei seminaristi proprio in base a quattro vicinanze: a Dio, al Vescovo, ai Sacerdoti e ai laici. Questo coincide con il programma formativo del nostro Seminario che, nel suo essere collocato in un luogo che diventa sede dell’Unità Pastorale delle Sette Chiese, beneficerà della presenza fisica di tutte e quattro le vicinanze. Siamo chiamati a pregare per il nostro Seminario e per le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata: non dobbiamo dimenticarlo. Gesù ci ha chiesto esplicitamente: “Pregate il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe” (Mt 9,38).

5. Sinodo universale e italiano

44. Proseguiamo i lavori del nostro sinodo diocesano, come abbiamo già illustrato. La Conferenza Episcopale Italiana ci suggerisce come strumento i “Cantieri di Betania”, richiamandosi all’incontro di Gesù con Marta e Maria nella casa di Betania (Lc 10,38-42). Essi sono quello della strada e del villaggio (ascolto dei mondi in cui gli uomini e le donne di oggi vivono, per collocare le nostre UP in dialogo con il mondo circostante), quello dell’ospitalità e della casa (la qualità delle relazioni e strutture ecclesiali e delle nostre unità pastorali), quello delle diaconie e della formazione spirituale (affrontato in termini espliciti anche in questa lettera). Avremo modo di approfondire queste tematiche nel corso dell’anno.

Conclusione

O nostra clementissima patrona,
Madonna della Salve,
a te rinnoviamo l’affidamento della nostra Chiesa Alessandrina:

Tienici sotto il tuo manto,
accompagnaci in questo momento delicato
di rinnovamento della nostra Diocesi,
assisti i sacerdoti implorando su di loro la luce dello Spirito Santo
e il fervore della trasmissione della fede,
proteggi anche il nostro seminario in questo cambiamento,
accompagna i religiosi e le religiose,
fa’ che la loro testimonianza sia fresca e appassionata,
assisti il popolo di Dio
ed in modo particolare coloro che sono chiamati
ad essere portatori della novità della Chiesa oggi.

O Maria, siamo qui ai tuoi piedi,
conduci tutti noi sulla via della pace
e fa’ che amiamo Gesù con tutto il cuore
e con tutta la nostra vita.

Amen.