Commemorazione di tutti i defunti
Gb 19, 1.23-27; Rm 5, 5-11; Mt 5, 1-12
Carissimi il tema della morte è un tema che viene esorcizzato pesantemente dalla nostra cultura, salvo riproporcelo quotidianamente attraverso il telegiornale. Un tema che viene esorcizzato perché, parlare della morte, è politicamente scorretto, ma è centrale perché il fatto che moriremo rimane uno dei pochi dati certi della nostra vita. Non abbiamo certezze su tutte le cose che possiamo vivere e fare, ma abbiamo questo dato certo: moriremo. E vivere questo come un momento da cancellare, non fa bene da un punto di vista dell’igiene personale spirituale, e non rende verità all’annuncio evangelico perché Gesù è venuto proprio perché noi “abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza”. Questo è il paradosso del cristianesimo: Gesù è venuto a dirci: “Vi do la vita attraverso la morte”. Fin dall’inizio della Chiesa, infatti, il battesimo era visto come un percorso di morte e di risurrezione. Il fonte battesimale era con degli scalini che permettevano di entrare in una vasca, dove il catecumeno veniva immerso proprio per significare che moriva al peccato per risorgere a vita nuova. “Ecco io faccio nuove tutte le cose” dice Gesù, ed è una vita in un regno diverso: “Vidi un cielo nuovo ed una terra nuova, il cielo e la terra di prima erano scomparsi ed il mare non c’era più”. Abbiamo quindi a che fare con un qualcosa che trascende questa nostra dimensione, non possiamo ridurre tutto all’immanenza, alla nostra vita terrena, perché diventa intelligibile e invivibile. La morte è esorcizzata dalla nostra cultura perché siamo nell’epoca dei consumi e bisogna consumare bene senza un domani, altrimenti si diventa un po’ meno consumatori. Le beatitudini che sono il primo lungo e articolato discorso programmatico di Gesù nel suo ministero di vita pubblica, ci presentano da subito una incompiutezza nella nostra vita, perché Gesù dice che ci dà il “centuplo quaggiù insieme a persecuzioni” e per dare la completezza “nel futuro la vita eterna”. Non è una promessa eterea ed ingenua, ed è anche vero che, pur avendo in questo tempo il centuplo per quello che lasciamo per il Signore, non c’è la pienezza. Ed è per questo che nelle beatitudini: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”, ora ma non qui. A noi piace il “qui e ora” anche perché ci fa essere quasi divini; è una tendenza dell’uomo, una cosa innata. “Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati”, qui ma non ora. “Beati i miti perché avranno in eredità la terra”, qui ma non ora. “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”, qui ma non ora. “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”, qui ma non ora. “Beati i puri di cuore perché vedremmo Dio”, qui ma non ora. “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”, qui ma non ora. “Beati i perseguitati della giustizia perché di essi è il regno dei cieli”, non qui ma ora. “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia, rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, non qui ma ora. Le beatitudini ci danno questo senso dell’incompiutezza, manca sempre un pezzo; anche nella nostra vita manca sempre un pezzo: o riusciamo vedere la morte come un passaggio ad una pienezza, oppure questa diventa uno spettro che opprime con la paura la nostra vita; la nostra vita sarebbe segnata e dominata dalla paura. Gesù Cristo è venuto a riscattarci dalla morte e dalla paura della morte facendoci vedere i beni che ci vengono dati in pienezza, non qui, non ora, ma in pienezza, e questo è il cammino della fede; la fede, infatti, è il contrario della paura. Vorrei raccontarvi tre aneddoti di come ho visto vivere la morte dai carmelitani e dalle carmelitane scalze. Primo: sono prete da poco, e, sin da seminarista c’era una monaca che pregava per me; anche qua ad Alessandria si fanno i gemellaggi tra monache e seminaristi; quando sono diventato prete, questa alleanza di preghiera è rimasta e continua tuttora. Succede che a questa monaca muore il papà nel giorno della domenica in Albis, conclusione della Ottava di Pasqua. Mi telefona la priora che mi dice: “Reverendo è morto il papà di suor Cristina; vorremmo domani celebrare la messa esequiale, e vorrei chiederle se possiamo celebrare in bianco”. Le dico: “Oggi finisce l’ottava di Pasqua e lunedì si può celebrare anche in viola”. “No, no! Volevamo chiedere se potevamo celebrare in bianco per fare più festa”. “Fate come volete, non c’è problema”. Ho buttato giù il telefono e mi sono detto: “E ora che cosa dico?”. È morto il papà e facciamo più festa. Non sono esattamente i nostri concetti. Secondo: muore una monaca, celebriamo il funerale, si snoda il corteo funebre con il feretro, arriviamo nel giardino del monastero, il feretro viene messo dentro il carro funebre, viene chiusa la porta del carro funebre; mi trovo, insieme ad altri sacerdoti, tra il carro funebre e le monache. Era una giornata piena di sole, e il sole si rifrangeva sul vetro posteriore del carro funebre, si vedevano soltanto dei fiori bianchi. Guardavo la macchina con i fiori dentro, il sole forte sul vetro, le monache che sorridevano e piangevano. Vi devo dire che le guardavo con invidia perché sembrava dicessero alla loro consorella: “Te ne vai con lo sposo, beata te”. Sono rimasto colpito da questo atteggiamento perché sembrava la partenza di un viaggio di nozze: i fiori bianchi, la macchina pronta a partire, le amiche della sposa contente e commosse. Terzo: vado a fare gli esercizi spirituali in un monastero di carmelitani scalzi maschi, un eremo vicino a Pontassieve, un luogo disperso, sette chilometri di sterrato in un bosco per arrivare a questo eremo dove i monaci fanno silenzio sette giorni su sette tranne la domenica pomeriggio: un silenzio drastico. Quando passavo nella cucina, dopo pranzo, sembravano tutti sordomuti, solo gesti e se dovevano dirsi qualcosa per forza, lo scrivevano su un foglio. La domenica pomeriggio si poteva parlare, e per non abituarsi a parlare in refettorio, un luogo in cui si deve dare cibo all’anima prima che al corpo, mangiavano in biblioteca. Tra questi monaci vi era un monaco novantaduenne, molto anziano e sulla sedia a rotelle; i confratelli, a turno, andavano ad alzarlo dal letto, lavarlo, vestirlo, metterlo sulla carrozzina e portarlo in cappella. Aveva un breviario tutto consumato, rigonfio, usato all’inverosimile; per leggere si serviva di una lente di ingrandimento e cantava; aveva degli occhi azzurri nei quali si poteva guardare l’infinito, gli occhi di un contemplativo. Muore proprio in quella settimana che sono in quell’eremo. La comunità non ha fatto una piega, tutto molto normale e sereno. Arrivano le pompe funebri, portano la bara, mettono questo monaco nella bara, la portano scoperchiata al piano terra tra la cappella e il refettorio, il punto centrale dove si radunano tutti i monaci. Il priore dice: “Ha il mantello un po’ storto, non è lungo uguale da una parte all’altra”. Provano a spostare questo mantello, ma poi il priore dice: “È lo stesso, tanto quando risorge, si dà una scollatine e va’ tutto a posto”. Invidiabile questa naturalezza di fronte alla morte: un uomo che avevano alzato, lavato e vestito per anni, a cui erano tutti affezionati e con il quale avevano condiviso la preghiera e la vita in un eremo per anni, eppure la sua morte è vissuta come un evento normale. Carissimi fratelli e sorelle, questo modo di vivere dipende da una fede vera: se crediamo veramente che dopo questa nostra vita ce ne sia un’altra, perché se ne siamo profondamente sicuri, la morte non è più quel grande dramma e riusciamo a dare tante risposte ai perché della nostra vita. Vi lascio con questa riflessione e continuiamo questa celebrazione; celebriamo Gesù presente tra noi vivo e risorto, e viene presente tra noi nell’eucaristia proprio mentre i ministri dicono le parole che riguardano la morte di Gesù: “Questo è il mio corpo offerto, questo è il mio sangue versato”. È in quel momento che Cristo viene presente attraverso le parole della sua morte. La liturgia continuamente ci richiama questo: con il battesimo, con l’eucaristia, possiamo comprendere che il Signore è venuto per darci la vita e questa vita viene attraverso il dato certo della morte; per questo siamo chiamati a fare delle nostri piccole morti quotidiane un cammino di risurrezione. La Vergine Maria, nostra celeste patrona che con grande affetto veneriamo in questa cattedrale, ci accompagni perché possiamo vivere con profondità questo momento e perché la nostra preghiera di suffragio sia autentica.
Sia lodato Gesù Cristo.