Sarete per me un regno di sacerdoti

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Sarete per me un regno di sacerdoti

“Sarete per me un regno di sacerdoti” è la nuova Lettera pastorale di monsignor Guido Gallese, vescovo di Alessandria, indirizzata “al clero, ai consacrati, ai fedeli laici e a tutti i fratelli di buona volontà“.

Clicca sui bottoni qui sotto per scaricare la Lettera pastorale, disponibile in due versioni.

 

 

 

 

monsignor Guido Gallese

Sarete per me un regno di sacerdoti

Guido Gallese,
successore degli apostoli di Gesù Cristo
presso la Chiesa di Alessandria,
al clero, ai consacrati, ai fedeli laici,
e a tutti i fratelli di buona volontà: pace a voi!

Introduzione

1. Carissimi, siamo all’inizio di un nuovo Anno Pastorale, anche questo non chiaramente prevedibile a causa della pandemia. Tuttavia lo affrontiamo con apertura di cuore, pronti a mettere in pratica l’invito di S. Paolo: “In ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Ts 5,18). Abbiamo l’atteggiamento eucaristico (cioè di rendimento di grazie) che ci consente di mettere a frutto questo anno, comunque vadano le cose, come ha detto felicemente Papa Francesco a Pentecoste dell’anno scorso: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla” (Omelia di Pentecoste, 31/5/2020). Se non potremo lavorare assieme sul sacerdozio dei fedeli, ne faremo un’offerta sacerdotale e così ci avremo comunque lavorato. Ho a cuore di scrivere queste cose perché come Vescovo, guardando alla Chiesa alessandrina e alla situazione attuale, ravviso un’urgenza particolare, che è sopra le altre e merita di essere attuata perché risponde a due esigenze. La prima: la grande tentazione, tipica del nostro tempo tecnologico, di risolvere i problemi con il fare, concependo di conseguenza la vita moralisticamente; il rischio è quello di sentirci giustificati (buoni) in virtù delle opere che compiamo (le opere della legge, secondo il linguaggio paolino). La seconda: coprire una lacuna teologica su un tema centrale ma passato (teologicamente) di moda, con il rischio di dimenticarlo o di lasciarlo in balìa di derive devozionali, il sacerdozio battesimale o dei fedeli. Per questo scrivo a voi tutti e in particolare a coloro che hanno compiti di presidenza o responsabilità a diverso titolo nelle comunità parrocchiali o elettive della nostra Diocesi.

Il viaggio di ognuno
2. Cominciamo da una riflessione: non solo vivendo nel mondo, ma talvolta anche stando nella Chiesa, si prova la sensazione del caos. Come dice Vasco Rossi: “Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi” (Vita spericolata, 1983). In teoria la vita di ciascuno di noi è innestata nel grande pellegrinaggio della Chiesa da questo mondo al Padre; in pratica – nel quotidiano – non abbiamo questa sensazione, o la percezione che la meta realmente si avvicini, per cui sembra soltanto che ci stiamo genericamente muovendo. E allora sorgono tutte le dinamiche del caso: chi se la prende comoda (perché faticare? In fondo percentualmente le cose non cambiano in modo apprezzabile se non cammino un giorno…), chi fa del turismo e viaggia per vedere cose, chi fa del pellegrinaggio un evento sportivo, chi si sposta per passare da un ristorante all’altro, chi si mette a disposizione della massa di gente in movimento per fornire supporto logistico, chi continua a lamentarsi dell’organizzazione del pellegrinaggio, chi vive male e diffonde malumore, chi non vuole parlare con nessuno, chi si sente inadeguato alla lunghezza del pellegrinaggio e si macera dentro, chi parte come un razzo e poi si ferma, chi desidera accentrare su di sé le attenzioni, chi cerca un modo per fare soldi,… e via di seguito. Insomma: ognuno tende a ridurre il pellegrinaggio ad un trip, il cui scopo è narcotizzarsi per astrarsi e distrarsi dal viaggio povero, lento e faticoso in cui ci troviamo. Vista così, sembra quasi che un senso non ci sia e che lo dobbiamo dare noi, creandolo con la nostra inventiva, quasi come dovessimo riempire di senso un vuoto originario. E invece un senso c’è già ed è dato da Dio.

Dio, l’uomo e la storia: il contesto della lettera pastorale
3. A questo punto bisogna riprendere alcune nozioni che sono alla base della riflessione di questa Lettera pastorale: per essere più sintetico (e meno noioso!) le metto in forma di domanda e risposta.
C’è un senso alla storia?
Sì.
Chi dà senso alla storia?
Dio.
Come lo sappiamo?
Dal fatto che Dio è entrato nella storia, si è coinvolto nelle vicende umane e, da ultimo, ha mandato il Figlio suo perché la verità fosse manifesta. È venuta “nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. […] A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli credono nel suo nome” (Gv 1,9.12).
E l’uomo? È impotente? È come una marionetta nelle mani di Dio?
No, l’uomo è libero. Ed è chiamato alla grande scelta: se credere e accogliere il Verbo che si è fatto carne e abita in mezzo a noi, inviato dal Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv 1,14), oppure non riconoscerlo e rifiutarlo.
Se Dio riesce a tirare le fila della storia e a condurla verso il bene, l’azione dell’uomo dunque è indifferente?
In ordine alla vittoria finale di Dio, sì: completamente indifferente. In ordine a chi è nel numero dei salvati non è indifferente.
In che senso?
Nel senso che l’uomo non è soltanto il destinatario di un piano di salvezza: è chiamato a collaborare ad esso. In questo piano di bene, però, ciascuno può reagire secondo la propria intelligenza e libertà e, così facendo, determina la propria destinazione finale.
Qual è la destinazione finale?
Uno può scegliere se entrare nel Regno di Dio o no, se far parte di quel mondo trascendente in cui le cose si dispiegano secondo l’armonia di Dio oppure no.
Il Regno di Dio è adesso o alla fine del mondo?
Nel Regno di Dio si sceglie di entrare già da questa vita (Lc 17,21: “il Regno di Dio è in mezzo a voi”) e se ne fa parte già da questa vita, ma esso manifesta in pienezza la sua natura solo alla fine dei tempi.
Qual è l’alternativa al Regno di Dio?
C’è un “luogo” in cui sono radunati coloro che non fanno parte del Regno di Dio e non vivono secondo il criterio dell’armonia: si chiama Geènna (citato 12 volte nei quattro Vangeli) o fuoco eterno (2 volte) o stagno di fuoco (4 volte nell’Apocalisse); noi lo chiamiamo inferno.
Concretamente come si collabora al piano di Dio?
C’è un modo umano, che è poco utile ai fini del disegno divino perché è intrinsecamente soggetto agli attacchi del nemico, esso consiste nel “fare il bene”. La vulnerabilità consiste principalmente in due aspetti: quando qualcuno distrugge ciò che fai, ti sembra che tutto retroceda al punto di partenza; inoltre chi fa il bene finisce per scoraggiarsi.
E allora qual è l’altro modo di collaborare al piano di Dio, quello efficace?
Quello di amare radicalmente, “come Lui ci ha amati”, senza aspettarsi una ricompensa: contro l’amore non c’è male che tenga.
Sembra che l’amore, per quanto radicale, non sia vittorioso: semplicemente non si può violare la libertà di una persona che decide di amare, come non si può violare la libertà di una persona che decide di odiare o di fare del male. Tuttavia da qui ad una vittoria sembra che ne manchi molto. Dunque dove sta la vittoria del bene?
In realtà esiste un “sistema”, l’offerta amorosa, per cui anche di fronte al male più bieco ed ingiusto chi ama non solo non perde, ma vince, trionfa. Basti pensare alla croce e all’offerta della propria vita, per amore, che Cristo fa su di essa: il male più obbrobrioso e il peccato più grave che l’uomo abbia mai concepito e commesso – il deicidio, mediante un supplizio mostruoso – è divenuto lo strumento e la fonte della speranza, della salvezza, della nuova ed eterna alleanza, per l’umanità di ogni luogo e di ogni tempo. Tuttavia questa vittoria sul male, quella di chi ama, non è immediatamente visibile, ma si manifesterà alla fine dei tempi; essa consiste proprio nella partecipazione al Regno di Dio: la partecipazione alla sua costruzione e il prendere parte alla sua instaurazione definitiva, quando la vittoria del bene sul male sarà palese ed incontrovertibile. L’atto dell’offerta amorosa è un atto sacerdotale, secondo il nuovo sacerdozio instaurato da Gesù Cristo, ed è il modo della partecipazione al regno di Dio, che è un regno di sacerdoti (Ap 5,10).
In pratica il sacerdozio servirebbe a trasformare dei mali in beni? In che modo?
Sì, unendosi all’atto sacerdotale di Cristo, sommo ed eterno sacerdote, il primo ad aver fatto questo e Colui che ci ha abilitati a ciò.
Sembra che questa spiegazione attraverso il sacerdozio sia l’introduzione di un elemento “magico”, un trucco per far tornare tutto quello che non torna. Non è un escamotage che rende tutto astratto?
No, il Vangelo ci dice che il sacerdozio è ciò su cui Gesù voleva soffermassimo la nostra attenzione. La cosa che colpisce del ministero di Gesù è che abbia vissuto in totale semplicità e nascondimento, fino a trent’anni, lavorando come falegname, per poi predicare e guarire tanta gente, facendosi seguire da grandi folle che, nel momento della prova, si sono dileguate. Tradito da uno dei suoi dodici apostoli, rinnegato dal capo di essi, degli altri dieci, nove sono fuggiti e uno solo è arrivato fin sotto la croce. Un grande fallimento, umanamente parlando, che però ha messo a fuoco il punto centrale: la crocifissione di Gesù. Essa, unitamente alla risurrezione, ci mostra che quell’amore vince, che chi persevera con Lui fino alla morte, con Lui risorge. D’altronde nella Sacra Scrittura l’atto sacerdotale di Gesù e il conseguente sacerdozio dei fedeli hanno una sorprendente centralità.
Torniamo ancora sulle conseguenze personali delle scelte: abbiamo detto che non influenzano il destino finale della storia. E Dio, che è così misericordioso, non eviterà che gli uomini siano dannati?
Dio ha stabilito di redimere Lui medesimo l’uomo, con il proprio intervento, ma ha anche deciso che l’uomo non sia salvato in modo automatico e contro la sua volontà, ma che collabori con un esercizio pieno della sua umanità, con intelligenza e volontà. Non si tratta quindi semplicemente di una risposta libera, come quella ad una domanda, ma di un processo caratterizzato da una profonda partecipazione personale, nel quale bisogna conoscere con l’intelletto e scegliere con un profondo atto di volontà, incarnando nella propria vita la scelta compiuta: è l’atto di fede, con il quale – riconosciuta l’opera salvifica di Dio nei confronti di ogni uomo – io scelgo di aderire personalmente. In tal modo siamo “giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente, come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati” (Rm 3,24-25). Così viene reso “giusto colui che si basa sulla fede in Gesù” (Rm 3,26). S. Agostino dice: “Dio che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”. Il fatto di salvare l’uomo a prescindere dalla sua libertà è qualcosa che svilisce la sua umanità e libertà, che sono sempre rispettate da Dio anche quando fossero indirizzate contro di lui.

Un approccio ragionato basato sulla Sacra Scrittura
4. Credo che nel contesto storico in cui ci troviamo sia necessario tornare alle radici della fede, in un momento in cui i paradigmi a cui eravamo abituati sono entrati in crisi e ci viene richiesto di riguardare la nostra esperienza religiosa con occhi nuovi, come fece Israele nel tempo dell’Esilio.

5. Quel dramma assoluto fu un’esperienza fecondissima che, dopo un lungo processo, ci diede il nucleo dell’Antico Testamento così come lo conosciamo noi. La sfida, oggi, è di offrire alla Chiesa che è in Alessandria, nuove prospettive di sguardo (conversione) e di azione pastorale, in modo da rispondere adeguatamente alla chiamata di Dio nel contesto storico attuale.

6. Alcuni testi delle Sacre Scritture sono rimasti per me inspiegabili, per anni. Sopra tutti, le Beatitudini (Mt 5,3-12): di otto, la prima e l’ultima sono al presente ma riguardano il regno dei cieli (distopiche), le altre sei sono al futuro (discroniche). Cosa rappresentano? Un rinvio ad un altro posto e ad un altro tempo? Come dire: qui prendi botte ma poi sarai premiato? E il centuplo quaggiù? La parola “beati” non riguarda forse anche l’oggi, l’hic et nunc? In che senso? Come posso avvicinarmi ad un fratello che piange e dirgli: “Beato te!”? È sicuramente evangelico, ma come gli spiego questa affermazione umanamente assurda? Dove sta esattamente la beatitudine proclamata dalle Beatitudini?

7. Una risposta mi è giunta proprio da dove non mi sarei aspettato. In questi tre anni in cui ho meditato molto l’Apocalisse, sono rimasto sorpreso da come in essa Gesù Cristo viene rappresentato nei suoi tratti salienti. Nell’indirizzo di saluto dell’Apocalisse, al primo capitolo, Gesù Cristo è “il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra” (Ap 1,5a); già qui viene detto che è profeta (dà testimonianza con la sua Parola), sacerdote (è il primo generato tra quelli che sono nel regno dei morti e questo insolito modo di generare designa proprio l’offerta sacerdotale nella sua peculiarità: dalla morte, frutto di un dono d’amore, nasce la Vita) e re (al di sopra dei re della terra).
Subito dopo Gesù, non esplicitamente nominato, viene descritto in tre passaggi come “Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5b-6). C’è una logica progressiva: Egli prima di tutto ci ama; di conseguenza ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue: è la redenzione; questa redenzione non è semplicemente un atto di liberazione fine a se stesso, ma ha un orientamento: “ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,6). Forse questo solo versetto, se isolato dall’insieme, potrebbe sembrare non tanto rilevante.

8. Al capitolo 5 viene introdotto l’Agnello (in piedi, come immolato), che è Gesù (morto e risorto), anche se non viene mai chiamato con il suo nome; a Lui viene rivolto un inno in cui si afferma: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione, e hai fatto di loro, per il nostro Dio, un regno e sacerdoti, e regneranno sopra la terra” (Ap 5,9-10). Ricordando che Apocalisse significa “rivelazione”, vediamo come l’Agnello possa prendere il libro ed aprirne i sigilli – e quindi rivelare il senso della storia – in ragione di un’azione progressiva espressa attraverso tre verbi: è stato immolato, ha riscattato (acquistato col suo sangue), ci ha costituiti come regno di sacerdoti. Se teniamo presente che Gesù ritiene che non ci sia amore più grande che dare la vita per i propri amici (cfr Gv 15,13), allora le due presentazioni dei capitoli 1 e 5 hanno un identico contenuto (la prima differisce solo per l’espressione “ci ha amati” anziché “è stato immolato”). È dunque la chiave dell’Amore a svelare il senso della storia e possiamo così comprendere che l’azione di Cristo conduce verso un fine ben preciso: creare un regno di sacerdoti.

9. C’è ancora un elemento, insieme sconcertante e fondamentale, riguardante il sacerdozio. Dopo essere stato introdotto, l’Agnello comincia ad aprire i sigilli del rotolo che gli è stato consegnato dal Padre (Colui che siede sul trono, Ap 5,7); lo scopo è rivelare il senso della storia, facendo così entrare nel cuore dell’Apocalisse-Rivelazione. Quando l’Agnello apre il primo sigillo, viene chiamato dallo Spirito Santo un cavallo bianco: esso è cavalcato da un personaggio, che poi è l’Agnello stesso, a cui viene data una corona ed esce vittorioso per vincere ancora (Ap 6,1-2). Il significato è che l’Agnello ottiene il regno, che è il regno di sacerdoti, ed esce vittorioso. Questa vittoria di Cristo non è l’essere scampato personalmente alla morte, come si potrebbe dedurre da una superficiale lettura di un versetto della Lettera agli Ebrei: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (Eb 5,7); c’è piuttosto uno sguardo molto più profondo, per cui la vittoria di Cristo diventa come il primo status rappresentativo dell’Agnello: in piedi, come immolato (Ap 5,6). L’essere morto e risorto è il segno di un atto sacerdotale che instaura un regno e fonda una spiritualità nuova, rivoluzionando tutto: non si “vince” più facendo tutto giusto, ma affrontando le proprie morti in spirito di abbandono al Padre, dando la vita per i fratelli. Si vince perdendo: proprio l’atto della sconfitta, per quanto estrema, diventa il motivo della vittoria. Ma non la vittoria ultima: il cavaliere “esce vittorioso per vincere ancora” (Ap 6,2); tornerà infatti (al capitolo 19) per guidare le milizie celesti, avvolto in un mantello intriso di sangue, nella battaglia finale, attraverso la quale il male sarà sconfitto definitivamente.

10. È una prospettiva molto interessante! Ma è solo dell’Apocalisse? All’inizio del Vangelo secondo Giovanni Gesù è presentato come “l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29), quindi in prospettiva sacerdotale.

11. Proviamo ora ad uscire dall’opera giovannea. Guardando come il sacerdozio è presentato nella Bibbia, si fanno altre interessanti scoperte: 1) il sacerdozio è preesistente al cristianesimo e all’ebraismo: è infatti comune a quasi tutte le culture di tutti i secoli; perciò nei primi libri si parla di Melchìsedek, “sacerdote del Dio altissimo” (Gn 14,18), di “Potifera, sacerdote di Eliòpoli” (Gn 41,45.50; 46,20), genericamente di “sacerdoti” nel contesto dell’Egitto (Gn 47,22.26), di Ietro, “sacerdote di Madian” (Es 2,16; 3,1; 18,1). Albert Vanhoye, gesuita, ex Rettore del Pontificio Istituto Biblico, Cardinale di S. Romana Chiesa, scomparso all’età di 98 anni il 29 luglio scorso dice: “Non c’è niente di più antico del sacerdozio e niente di più nuovo del sacerdozio di Cristo”; 2) La prima volta che si parla di sacerdozio in una prospettiva ebraica è Dio stesso a parlare: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,6); 3) dopo questa affermazione si parla di sacerdoti come figli di Aronne molte volte, dapprima in contrapposizione al popolo (Es 19,22.24), poi si comincia a parlare dell’istituzione del sacerdozio (Es 28,1) e da lì in poi ci si concentra sul sacerdozio dato ad Aronne e alla sua discendenza (Es 28,3.4.35.41; 29,1.9.30.44; 30,30; 31,10; 35,19; 38,21; 39,41; 40,13.15); poi si parla di sacerdozio/sacerdoti 147 volte nel Levitico. E così si va avanti. 4) Particolarmente degne di menzione, per discostarsi dal sacerdozio di Aronne, sono due cose: la prima è che il Salmo 110 ha un testo profetico sul sacerdozio in cui si dice “Il Signore ha giurato e non si pente: tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek” (Sal 110,4). Tra l’altro è un salmo che Gesù ha commentato attribuendolo a se stesso. Dunque Gesù è sacerdote secondo un ordinamento differente da quello ebraico. La seconda è che “i Vangeli non parlano mai di sacerdozio a proposito di Gesù, né a proposito degli apostoli”. Questo perché Gesù non voleva essere in nessun modo frainteso sulla concezione del sacerdozio neotestamentario che differisce essenzialmente da quello dell’Antico Testamento soprattutto per l’insistenza sull’alleanza e sulla mediazione.

12. È solo quando capisco questo genere di sacerdozio che mi si dischiude il senso delle Beatitudini, che sono in bilico tra un indubbio fallimento umano e un’altrettanto indubbia ricompensa finale: in virtù del sacerdozio esiste una beatitudine che è presente e persistente persino contestualmente ai disagi della vita.

Il sacerdozio battesimale

13. Veniamo al punto. Il sacerdozio è centrale riguardo all’atto redentivo. È facilmente comprensibile che l’atto redentivo sia un atto sacerdotale, ma quasi nessuno pensa che esso abbia inoltre lo scopo di creare sacerdoti, ovvero di trasformare coloro che credono in un regno di sacerdoti. Abbiamo detto che se ne parla profeticamente già dall’Esodo: “Voi sarete per me un regno di sacerdoti” (19,6) e viene detto nell’Apocalisse che siamo stati riscattati dall’Agnello in vista di fare di noi un regno di sacerdoti. Chiaramente non si sta alludendo al sacerdozio di Israele, che è di natura genealogica (per cui ne farebbero parte solo i discendenti di Aronne), altrimenti l’operazione di trasformare il popolo in un regno di sacerdoti risulterebbe una pulizia etnica.

14. Si sta dunque parlando di un sacerdozio comune a tutti i cristiani: il sacerdozio comune, appunto, o battesimale. Esso è un dono ricevuto al momento della consacrazione battesimale, mediante l’unzione crismale, e conferisce all’essere umano che la riceve un’attitudine – chiamata “carattere sacramentale” – che lo rende in grado di agire secondo una modalità nuova. In questo caso, associando il fedele a Gesù (il Cristo, l’Unto, il Consacrato), lo rende partecipe del dono profetico, sacerdotale e regale di Gesù.

15. Questo sacramento-dono viene conferito mediante il dono dello Spirito Santo, Amore del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. Esso è principio di identificazione del Figlio rispetto al Padre: è infatti dalle relazioni tra le Persone trinitarie che si riconoscono le loro identità personali. È in virtù di questo che, con il dono dello Spirito Santo, noi diventiamo figli di Dio.

16. Lo Spirito Santo è potenza consacrante per eccellenza ed essendo Persona-amore, ci fa capire che ciò che consacra un’offerta, in un atto sacerdotale, è l’amore: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). Perciò lo Spirito Santo, Amore donato, rende possibile di amarci gli uni gli altri come Gesù ha amato noi (cfr Gv 15,12), con il suo stesso amore! Ciò che rendeva sacra un’offerta nell’Antico Testamento, in quanto le permetteva di salire in alto, era il fuoco: esso faceva sì che Dio potesse godere del sacrificio, perché portava a Lui l’aroma. Giovanni Battista disse che Gesù ci avrebbe immersi (battezzati) in Spirito Santo e fuoco (cfr Mt 3,11; Lc 3,16). Dunque, mentre nell’antico sacerdozio israelitico è il fuoco l’elemento che rende sacra l’offerta (da: sacrum facere, rendere sacro), con il nuovo sacerdozio di Cristo l’elemento che consacra è l’amore divino, scambiato tra il Padre e il Figlio e gratuitamente donato agli uomini. Padre Albert Vanhoye dice: “«Sacrificare» è una grande azione, un atto positivo, così grande e così positivo, che un uomo non è capace di compierlo con le sole sue forze. Chi si credesse capace di compiere un sacrificio, un’offerta sacrificale, s’illuderebbe. In effetti solo Dio può rendere sacra un’offerta comunicandole la sua santità. […] L’uomo non è all’altezza di compiere questa azione, perché non può disporre a suo piacimento della santità. Può soltanto presentare un’offerta. Perché questa diventi sacra, occorre un intervento di Dio stesso, occorre che Dio prenda l’offerta, la trasformi e la faccia salire presso di sé per mezzo del suo fuoco divino”. Prosegue dicendo: “Il vero fuoco di Dio non è il fulmine che cade dalle nuvole, ma è lo Spirito Santo, Spirito di santificazione, che è il solo capace di effettuare la trasformazione sacrificale, comunicando all’offerta la santità di Dio”.

17. Così possiamo comprendere più profondamente le parole di Gesù quando dice: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). Al culmine del dono di Gesù, il dono dell’amore più grande, c’è la consegna dello Spirito: “Chinato il capo, consegnò lo spirito” (Gv 19,30). Lo Spirito Santo è l’elemento centrale che rende realizzabile il comandamento nuovo di Gesù, l’unico grande comandamento che ci consegna la sera prima di morire: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). È per mezzo di esso che noi non soltanto siamo redenti nel senso di liberati dalla condanna eterna, ma conseguiamo anche la nostra piena realizzazione di uomini nel partecipare alla stessa grandissima azione redentrice di Cristo, attraverso l’esercizio del sacerdozio battesimale: “Do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Sono S. Pietro e S. Paolo – entrambi! – che ci dicono che abbiamo un culto spirituale da svolgere: “Quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1Pt 2,5) e: “Vi esorto dunque fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).

18. Arriviamo dunque alla conclusione che, nella vita cristiana, il culto spirituale è centrale; ad esso si è abilitati con la consacrazione battesimale e tale culto si svolge primariamente nella celebrazione eucaristica, memoriale del dono amoroso di Cristo al Padre per l’umanità. In essa uniamo all’offerta di Cristo, dandole completamento, la nostra: quella del Suo corpo, che è la Chiesa. La celebrazione eucaristica è presieduta da un ministro ordinato che ha il compito di rendere presente alla comunità l’atto redentivo di Cristo e di fornire ad essa la possibilità di unirsi a Lui.

19. In questa prospettiva il sacerdozio ministeriale è ordinato al sacerdozio battesimale, che è il vero fulcro della vita cristiana. Papa Francesco parla del rapporto tra ministri ordinati e laici nella Evangelii Gaudium in questi termini: “I laici sono semplicemente l’immensa maggioranza del popolo di Dio. Al loro servizio c’è una minoranza: i ministri ordinati” (EG 102). Il Santo Padre non sta mettendo in discussione l’importanza del ministero ordinato o la sua chiara distinzione dal sacerdozio battesimale, consistente nel peculiare carattere sacramentale dell’Ordine, ma si sta ponendo nella posizione di Cristo nell’Ultima Cena, quando, indossato il grembiule, impartisce il suo insegnamento: “Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,13-14). In diverse occasioni il Papa si è lamentato del clericalismo. Il punto è che il sacerdozio ordinato è costituito a servizio del sacerdozio dei fedeli. Nel corso dei secoli il sacerdozio comune, evidente nel Nuovo Testamento (cfr 1Pt 2,4-5.9; Eb 10,19-25), è stato messo da parte. Questo oblìo è probabilmente la radice teologica del clericalismo, che consiste in un modo di vedere e di impostare la Chiesa che mette al centro il solo ministero ordinato anziché il sacerdozio battesimale. Per questa ragione nella nostra Diocesi il più stretto consiglio del Vescovo, il Consiglio Diocesano Permanente, ha al suo interno anche dei laici: per non perdere la completezza dello sguardo sulla Chiesa, compreso anche lo sguardo femminile, in ossequio alla richiesta di Papa Francesco nella Evangelii Gaudium: “Si deve garantire la presenza delle donne anche nell’ambito lavorativo e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali” (EG 103).

La regalità

La regalità di Cristo e il sacerdozio
20. La cosa interessante è che, delle tre dimensioni della consacrazione battesimale che rende profeti, sacerdoti e re, il sacerdozio è legato a doppio filo al regno (cfr Es 19,6; 1Pt 2,9; Ap 1,6; 5,10), mentre la profezia non lo è altrettanto rispetto alle altre due dimensioni. L’insegnamento è che regni realmente solo quando vivi il sacerdozio: l’esercizio del sacerdozio ti rende partecipe della risurrezione di Cristo, la quale si manifesterà anche nella carne alla fine dei tempi. Tuttavia la regalità segna anche la nostra vita terrena, perché ci porta in una prospettiva e in una situazione interiore tale che anche le tribolazioni di questo mondo ci toccano fino ad un certo punto: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove” (1Pt 1,6); “Chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi!” (1Pt 3,13); “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35.37).

21. Il Regno di Cristo è un regno particolare: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Infatti Gesù accetta le insegne regali solamente in prossimità della sua passione e le sue insegne gli sono conferite per burla, ma da Lui prese sul serio. Persino l’iscrizione sulla croce, il titulum (INRI: Iesus Nazarenus Rex Iudæorum), ha un duplice significato: da una parte Pilato l’ha scritta per infastidire i Giudei (ed essi protestano), dall’altra afferma la regalità di Cristo che si manifesta proprio in quel momento. Gesù è re nell’amore e questo amore è il nucleo santificante e consacrante del suo sacerdozio. Tutto questo viene mirabilmente sintetizzato dall’Inno Vexilla regis della Settimana Santa che dice che la croce è “talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore”.

La strutturazione della Chiesa
22. L’amore, essendo la ragione per cui Gesù è re, diventa anche ciò che struttura il Regno. Si capisce che questo regno è la Chiesa, la Gerusalemme celeste, che discende dal cielo, da Dio, bellissima e immensa (a pianta quadrata, con un lato di 2100 chilometri circa e mura altissime), con un albero di vita che dà frutti dodici volte l’anno. La Chiesa, originata dall’Amore – è scaturita dal costato squarciato di Cristo – e regno d’amore, si struttura in un donarsi ai fratelli come Cristo si è donato per noi fino alla morte di croce. In quest’ottica si inseriscono i diversi servizi (e ministeri) all’interno della Chiesa: essi non sono azioni da compiere per il buon funzionamento della Chiesa, ma atti di profondo amore ed attenzione nei confronti dei fratelli. È dalla scelta di amare attraverso Cristo, con Cristo e in Cristo che nasce l’impegno concreto a favore dei fratelli, che è un atto da servo, un ministero, non un atto di governo.

23. Per edificare la Chiesa nella sua attitudine di servizio il Papa, nello scorso anno, ha istituito tre ministeri dedicati ai laici: lettorato, accolitato e ministero di catechista. Essi, insieme al sacramento dell’Ordine nel grado del diaconato permanente, sono tre modi di servire la Chiesa per i quali vogliamo trovare una adeguata preparazione ed una forte connotazione di servizio nello spirito appena descritto. Non si tratta di dare un foglio di carta agli attuali catechisti che attesti che possono continuare a fare i catechisti: si tratta di fondare il ministero di catechista secondo le indicazioni del Santo Padre e fare in modo che esso sia veramente espressione di una comunità, mirando alla formazione di una persona vitalmente inserita in una comunità.

I ministri ordinati
24. Nel mio cuore ho la segreta speranza che, una volta che impostiamo una spiritualità basata sul sacerdozio battesimale, ne abbiamo giovamento anche noi ministri ordinati: se l’identità del pastore è veramente servire i sacerdoti battesimali, sicuramente aiuterà lo svolgimento del ministero e una crescita della soddisfazione in esso. Sentirsi al proprio posto, pur nelle difficoltà che sono intrinseche al nostro servizio, è molto meglio che sentire che le cose non “girano” come dovrebbero, incontrando comunque difficoltà.
25. I sacerdoti rimangono comunque il fulcro del cambiamento: essi hanno il peso più grande del cambio di mentalità, che dobbiamo affrontare. Chiedo ai fedeli di accompagnarli con affetto e cura, nelle scelte, nel programmare il cambiamento e anche attraverso la preghiera. Essi sono il bene più prezioso, da custodire ed incoraggiare. Non permettete che il vostro parroco si scoraggi: fatevi trovare al suo fianco.

I giovani
26. L’unico apostolo fedele fin sotto la croce è stato S. Giovanni. Lo abbiamo raffigurato anche nel nostro caro simulacro della Madonna della Salve. Era un giovane di circa 18 anni. La Chiesa, la Donna, è stata affidata ad un giovane di 18 anni, che rappresentava tutti i credenti: è bellissimo ed evocativo. Oggi quando c’è da rappresentare qualcuno nella Chiesa non c’è mai un diciottenne, se non quando si vuole rappresentare altri giovani. Dobbiamo riportare i giovani al centro della cura e delle attenzioni della comunità cristiana.

27. Desidero che anche i loro cammini formativi vengano rimodulati sull’acquisizione della spiritualità del sacerdozio battesimale: solo così formeremo adulti nella fede, capaci, un domani, di essere riferimenti responsabili delle comunità cristiane. Inoltre credo che in tal modo il sacerdozio ministeriale e la vita consacrata diventino molto più intelligibili nella loro essenza e missione, cosicché se il Signore li chiama ad essi, possano dire il loro sì. Questo desiderio lo affido in modo particolare alle preghiere delle nostre comunità parrocchiali e elettive, affinché con costanza, durante tutto l’anno, non ci stanchiamo di chiedere al Signore che mandi nuovi operai per la sua messe.

Lo spirito di fede e la preghiera
28. Rimane ancora un punto di capitale importanza e forse può sembrare strano trovarlo qui: tuttavia ritengo che lo spirito di fede e la preghiera siano le due cose, l’una discendente dall’altra, che maggiormente strutturano una comunità cristiana. Non possiamo dimenticare quella che forse è la domanda più toccante ed esistenziale posta da Gesù Cristo a proposito della Chiesa: “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).

29. Il Signore si è fatto uomo in un popolo che aveva sistematizzato la legge come vertice dell’organizzazione di una società, e lì è andato a predicare la fede. “Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»” (Gv 6,28-29). Nulla di più difficile. In fondo tutti noi siamo portati a preferire il vivere di regole all’essere “appesi” ad atti di fede. Sta di fatto che avere uno spirito di fede, la prontezza a fidarci di Dio anche quando non lo faremmo, come per l’invito di Gesù a Pietro a prendere il largo e gettare le reti per la pesca (cfr Lc 5,1-11), è veramente una scuola di vita straordinaria, seppur faticosissima.

30. Quando abbiamo un autentico spirito di fede, ci dedichiamo alacremente alla preghiera, nella convinzione che tutto il resto ci verrà dato in aggiunta. Dovremmo impostare le nostre parrocchie su un’offerta ricca di preghiera e puntare molto sull’insegnamento di essa, particolarmente nei tempi forti (Avvento e Quaresima). L’adorazione eucaristica, poi, con il suo tratto contemplativo, è una calamita – nonché palestra – per anime che sanno guardare alla realtà con occhi di fede. Un’ottima strategia è quella di scegliere i collaboratori tra quanti sono assidui all’adorazione eucaristica e seguono percorsi di preghiera con momenti di condivisione.

31. A questo proposito, essendo avvenuti già almeno tre furti sacrileghi in questi ultimi nove anni di mia presenza in Diocesi, chiedo che laddove avvengano si organizzino adorazioni eucaristiche riparatrici. Chiedo pertanto alla Parrocchia di S. Paolo di provvedere a questo e chiedo altresì alle persone che sono sensibili a questo tema che si rechino a fare adorazione eucaristica in essa.
Durante quest’anno pastorale ci saranno le celebrazioni per il 450º anniversario della nascita di Papa S. Pio V, al secolo Antonio Ghislieri da Bosco Marengo: vogliamo fare in modo di farlo con stile ecclesiale. La Lettera agli Ebrei ci invita in modo chiaro: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede”. Anche questo è un esercizio in pieno spirito sacerdotale: facciamo in modo che in questo anno il nostro Papa – l’unico del Piemonte – lasci il segno nei nostri cuori.

La celebrazione eucaristica
32. Ecclesia de Eucaristia è il titolo di un’enciclica di Papa S. Giovanni Paolo II sull’Eucaristia nel suo rapporto alla Chiesa. La Chiesa scaturisce dalla celebrazione del mistero dell’Eucaristia. Nell’esercizio del proprio sacerdozio battesimale inserito in quello di Cristo, il fedele vive l’esperienza di essere ispirato dalla Liturgia della Parola ed infiammato dalla potenza dell’Eucaristia. La Messa termina con la Comunione, oltre la quale c’è la vita vera, il quotidiano con le sue gioie e fatiche, nel quale siamo chiamati a vivere il sacrificio eucaristico. Così anche l’Apocalisse termina con la celebrazione delle nozze (comunione), ma poi ti butta letteralmente fuori dal Libro e fuori dalla Bibbia stessa, per inviarti nella realtà che nel testo è solo annunciata, ma rimane tuttavia da vivere.

33. Credo che sarebbe molto bello che iniziassimo a partire da qui nello strutturare in modo nuovo le nostre comunità: sarebbe bello condividere le iniziative che si prendono per animare le celebrazioni eucaristiche al fine di far vivere la Messa favorendo l’esercizio del sacerdozio comune dei cristiani. Sicuramente otterremmo numeroso materiale qualificato ed ispirante.

Sinodalità
34. Il Santo Padre ha spesso parlato di sinodalità nella Chiesa, fin dall’inizio del suo pontificato. Tuttavia, dopo aver celebrato alcuni sinodi, ecco che il Sinodo dei Vescovi, attualmente, è chiamato ad occuparsi della sinodalità stessa. Il prossimo Sinodo infatti si intitolerà: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. In molti discorsi dell’ultimo anno, Papa Francesco ha parlato della sinodalità e della ecclesialità. L’impressione è che sia preoccupato delle derive mondane di una malintesa sinodalità e che stia cercando di definire più accuratamente quella che è la vera e autentica ecclesialità e sinodalità, rispetto a forme più parlamentari o associative o a campagne lobbistiche o ideologiche, che purtroppo talvolta si vedono nella Chiesa. Questo è un problema comune ai pastori: una volta che uno si mette di fronte alla molteplicità di manifestazioni e di strutturazioni nella Chiesa, viene assalito dalla domanda riguardante l’ecclesialità, le sue condizioni e le modalità operative differenti rispetto a quelle umane. Il Papa ha sintetizzato questo attraverso alcune espressioni negative, come: “non c’è lo Spirito Santo”, “non è ecclesiale”, “non è Chiesa”, ed altre simili. Quando papa Francesco ha definito in positivo quattro coordinate entro le quali troviamo l’ecclesialità, sorprendentemente l’ha fatto ricorrendo ad Atti 2,42 (Udienza Generale del 25 novembre 2020). Esse sono: la perseveranza nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane (Eucaristia), nelle preghiere. Questo ci conforta perché vuol dire che negli ultimi tre anni non abbiamo camminato su una falsa pista. Nelle sue esemplificazioni il Santo Padre è stato decisamente affilato: “La Chiesa non è un mercato, un gruppo di imprenditori che va avanti con un’impresa nuova. Essa è opera dello Spirito Santo, lavoro dello Spirito nella comunità cristiana, sempre”; “Tutto ciò che nella Chiesa cresce al di fuori di queste quattro coordinate è privo di fondamento. […] è privo di ecclesialità. […] È Dio che fa la Chiesa, non il clamore delle opere”; “Senza queste quattro coordinate la Chiesa diventa una società umana, un partito politico. […] Senza queste quattro coordinate manca lo Spirito e se manca lo Spirito, noi saremo una bella associazione umanistica e di beneficenza, anche un partito ecclesiale forse, ma non c’è la Chiesa”. Sono parole da meditare profondamente.

35. Queste considerazioni del Papa sull’ecclesialità sono strettamente collegate con la sinodalità e ascoltando la sua catechesi lo si capisce chiaramente. Come mai? Perché l’ecclesialità è quella che garantisce la presenza dello Spirito Santo: la Chiesa – definita dalle quattro coordinate presenti in At 2,42 e ricordate dal Papa – è il luogo ordinario della presenza dello Spirito Santo e della sua azione. Perciò, dal momento che la sinodalità consiste in un’obbedienza allo Spirito Santo, che ispira e consiglia, è necessario che la sinodalità sia vissuta in un contesto di ecclesialità per assicurare la presenza dello Spirito Santo: un contesto in cui ci sia la perseveranza nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione, nello spezzare il pane (Eucaristia) e nelle preghiere.

36. Il Sinodo dei Vescovi avrà un percorso (vedi schema qui a destra) che inizierà in questo settembre 2021 con il documento preparatorio e il Vademecum, per continuare con l’apertura a Roma – il 9 e 10 ottobre – e in tutte le diocesi del mondo il 17 ottobre 2021. Tutte le diocesi sono chiamate a dare il loro contributo al Sinodo con una fase sinodale diocesana. Ci sarà una sintesi ad aprile 2022, seguita da un primo Instrumentum laboris (settembre 2022) che aprirà la strada alle assemblee Ecclesiali Regionali/Continentali che redigeranno a marzo del 2023 dei documenti finali. A giugno 2023 uscirà un secondo Instrumentum laboris che farà da riferimento per il Sinodo che verrà celebrato ad ottobre 2023 a Roma e che produrrà il suo documento finale.

Unità pastorali
37. Per quanto riguarda la nostra Diocesi, sono dell’idea di compiere un cammino sinodale che ci porti a ridefinire la nostra azione pastorale in uno spirito comunionale, affinché il passaggio alle unità pastorali – ormai non più procrastinabile, data la situazione della nostra amata Diocesi – non sia qualcosa di tecnico, ma una svolta veramente ecclesiale: guai a noi se programmassimo il cambiamento al fine di non far cambiare nulla. Per questo, mi rivolgo accoratamente in particolare ai miei confratelli nel sacerdozio, compresi quelli più anziani, prossimi alla fine del loro ministero: carissimi, dobbiamo avere il coraggio – il coraggio della fede – di affrontare questo cambiamento verso l’ignoto con la stessa disponibilità e fede con cui gli apostoli affrontarono il problema della strutturazione della Chiesa agli inizi di tutto, dopo la dipartita di Gesù. È una fatica, perché in fondo continuare in modo simile a come abbiamo sempre fatto è psicologicamente più rassicurante e ci evita un sicuro sforzo mentale. Tuttavia sarebbe un tradimento dei nostri fedeli di fronte ad una situazione oggettiva in cui l’inazione diventerebbe una grave colpa.

38. Carissimi fedeli tutti, nella nostra fase sinodale diocesana dobbiamo avere il coraggio della verità nell’affrontare i problemi delle nostre comunità evitando depistanti tentativi apologetici. Per un vero cambiamento (conversione), c’è bisogno di una schiettezza nel mettere a fuoco le proprie colpe dinanzi al Vangelo, nel riconoscerle come comunità e nel trovare soluzioni non nell’ordine tecnico, ma in un rinnovato spirito di fede in Dio.

39. Per avviare le unità pastorali è necessario innanzitutto definirne i confini e la quantità di popolazione in ordine ad una vita di comunità completa, ovvero in grado di prendersi cura autonomamente di tutte le componenti della comunità a cominciare dalle più fragili (poveri, ammalati, bambini), per continuare con l’educazione di adolescenti e giovani, la cura delle famiglie e degli anziani, la preparazione al matrimonio e soprattutto la cura della Liturgia, fonte e culmine di tutta la vita cristiana. Questa fase va affrontata immediatamente all’inizio dell’anno pastorale: vi chiedo di prestare particolare attenzione per ridurre la probabilità di sbagliare i confini e trovarsi a ridefinirli quando è troppo tardi.

40. Nel corso del nostro cammino sinodale verranno messe a fuoco le coordinate teologali, particolarmente di fede, delle nostre unità pastorali. Sarà mia cura, unitamente agli uffici pastorali, precisare, strada facendo, le condizioni tecniche della vita cristiana delle comunità.

Uffici di Curia
41. Anche la struttura della Diocesi verrà rivisitata in chiave sinodale: ci siamo resi conto che bisogna incrementare il dialogo tra gli uffici pastorali e favorire la collaborazione su progetti che di fatto ne coinvolgono diversi allo stesso tempo. L’idea è quella di ripensare gli uffici con una chiave di lettura omogenea, orientata al servizio delle persone, e di accorparli in nuove unità di lavoro con a capo un direttore e dei responsabili di singole sezioni, corrispondenti a quelli che finora erano gli uffici. La sinodalità consiste nel pensare tutti assieme i principali percorsi pastorali, soprattutto quelli comuni, e lasciare poi che le singole sezioni interessate si occupino della realizzazione tecnica delle attività. Questo permetterebbe una migliore coordinazione e contestualmente una maggiore snellezza.

42. Oltre agli uffici di Curia, si tratta di creare maggiori legami tra gli organismi diocesani che insistono nelle stesse aree pastorali degli uffici, per fare in modo che il cammino che si compie sia insieme (sinodale, da syn + odos, insieme + strada).

43. Infine trovo che il tema della cura della nostra casa comune, la Terra, sia da approfondire maggiormente e debba essere oggetto di azione pastorale, sulla scorta della Laudato si’ di Papa Francesco, per cui intendo istituire un ufficio (o sezione) per la cura della casa comune.

Sperimentazione
44. La novità della situazione pastorale chiederà delle sperimentazioni che andranno programmate insieme, affinché non rimaniamo nel campo delle teorie, ma constatiamo i benefici che le scelte possono apportare.
45. A questo proposito desidero metterne in cantiere una. Come saprete, sono stato invitato dal Nunzio Apostolico in Bosnia Erzegovina mons. Luigi Pezzuto (da pochi giorni dimissionario dall’incarico per raggiunti limiti d’età) a presiedere una celebrazione eucaristica e a fare una testimonianza sulla mia vocazione al Festival dei giovani a Medjugorje, all’inizio di agosto. È stata un’esperienza molto significativa, che mi ha fatto riflettere. Il fenomeno di Medjugorje, grazie a Papa Francesco, è uscito da una fase “catacombale” e semi clandestina per diventare un evento “ufficiale”, almeno dal punto di vista pastorale: i relatori del Festival dei giovani invitati dal Nunzio Apostolico, un Visitatore Apostolico a carattere speciale per la parrocchia (il compianto mons. Henryk Hoser, nato al Cielo qualche settimana fa) che ha curato l’accoglienza pastorale della parrocchia, un messaggio del Santo Padre ai partecipanti al Festival dei Giovani. Tutto questo perché ci si è messi nella prospettiva dei frutti, piuttosto che dell’analisi di una monumentale quantità di fascicoli dottrinali riguardanti gli ultimi quarant’anni di eventi. Ebbene, dal momento che è stata riconosciuta l’efficacia pastorale di Medjugorje (attualmente forse il luogo dove si verifica il più grande numero di conversioni di adulti, nella Chiesa) e dal momento che ben conosco la strutturazione dell’azione pastorale di quella parrocchia dedicata a S. Giacomo apostolo, mi sento di fare una semplice considerazione. Se le apparizioni fossero false, allora il merito di tutte quelle conversioni non può essere che il metodo pastorale utilizzato; se invece le apparizioni fossero vere allora probabilmente la Madonna vorrebbe che usassimo quel metodo che Lei ha suggerito. In entrambi i casi credo che abbia senso sperimentare, almeno in un luogo della nostra Diocesi (una chiesa del Centro), quella modalità pastorale, che consiste nella recita di due rosari prima della Messa vespertina, nella celebrazione della Messa quotidiana seguita dalla recita del Credo Apostolico e di sette Pater, Ave, Gloria, poi dalla benedizione degli oggetti sacri, dalla preghiera sui malati nell’anima o nel corpo (solo il mercoledì) e infine dalla recita di un ulteriore rosario finale oppure dall’adorazione eucaristica (al giovedì) o dall’adorazione della Croce (il venerdì). Questo però va fatto gradualmente e va accompagnato con una disponibilità per le confessioni sacramentali. Avremo modo di parlarne durante l’anno con i sacerdoti interessati e di programmarne la realizzazione e la verifica.

Conclusione

46. Affidiamo alla nostra Clementissima Patrona, la Beata Vergine Maria della Salve, il cammino pastorale della nostra Chiesa alessandrina. Provveda Lei, con la sua forte intercessione, a custodirla nella fedeltà a Cristo, in una salda speranza e nella carità che tutti lega nella comunione.

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